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Agricoltura e sfruttamento, meglio evitare i luoghi comuni

15 gennaio 2010

Libertiamo – 15/01/2010

Uno dei luoghi comuni che sento ripetere più frequentemente in questi giorni a proposito della rivolta di Rosarno e delle sue origini è quello secondo il quale se non si pagasse tanto poco la mano d’opera, l’agricoltura della Piana di Gioia Tauro andrebbe in crisi. Le arance e i mandarini non costano nulla, si dice, e costa molto produrli. Per questa ragione sarebbe necessario, anzi indispensabile, ricorrere al lavoro nero.

Se l’agricoltura è in crisi, se il rapporto tra i costi di produzione e le rese è così svantaggioso, le ragioni non vanno ricercate nel costo della mano d’opera. In agricoltura il lavoro non è particolarmente costoso rispetto ad altri comparti, e lo stato interviene nei periodi in cui il lavoratore deve rimanere fermo con indennità di disoccupazione consistenti. Oltretutto è vero che in agricoltura si ricorre spesso e volentieri al lavoro sommerso, perché a volte si ha bisogno di mano d’opera talmente occasionale da rendere comunque troppo oneroso un vero e proprio contratto, ma credo che nessuno si sarebbe scandalizzato troppo se nella Piana di Gioia Tauro avessero pagato dei lavoratori sì al nero, ma li avessero pagati decentemente.

Dalle mie parti se vuoi che qualcuno ti venga a dare una mano devi tirar fuori 8 – 10 euro l’ora. Nei periodi in cui le giornate si allungano, come all’epoca della trebbiatura, quando una giornata di lavoro può durare anche 12 ore e più, un operaio pagato al nero arriva a portare a casa anche 120-150 euro. Che è all’incirca il costo di 6 immigrati pagati con le tariffe di Rosarno. Ed è sicuramente più di quanto costerebbe lo stesso operaio se fosse sotto contratto, visto che in agricoltura la mano d’opera regolare viene pagata a giornate e non a ore. Questo spiega come nelle campagne l’uso di lavoratori al nero non è diffuso tanto per l’elevato costo del lavoro regolare, come per esempio avviene nell’edilizia, quanto per ovviare a situazioni di emergenza, o perché spesso sono lavoratori già impiegati regolarmente altrove in cerca di “arrotondamenti”.

Piuttosto, le cause della crisi dell’agricoltura andrebbero ricercate nel sistema di contributi e sussidi europei, che incidono pesantemente sul naturale sistema di determinazione dei prezzi, condizionandolo al ribasso. Per cui è probabilmente vero che coltivare agrumi nella Piana di Gioia Tauro rende poco, ma l’agricoltura calabrese non versa in condizioni peggiori di quella del resto d’Italia e, si potrebbe dire, d’Europa. Altrove però non viene presa in considerazione la possibilità di superare le difficoltà ricorrendo alla schiavitù, perché di questo si tratta. Chi prova a spiegarci che impiegare degli immigrati a quelle condizioni è in qualche modo “necessario”, dovrebbe provare a spiegarci anche la necessità di usarli come tiro al bersaglio. Dovrebbe spiegarlo ai tanti agricoltori italiani che, di fronte a filiere divenute improvvisamente improduttive, hanno convertito le loro aziende verso altre colture o hanno dovuto, dignitosamente, cambiare mestiere.

Siamo maestri nel gioco dello scaricabarile, ma di fronte alla miseria (morale, più che materiale) venuta alla luce nella Calabria del 2010 sarebbe legittimo aspettarsi un’assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni, tutte, del nostro paese. Nel meridione d’Italia si sono perse completamente le coordinate etiche e materiali che fanno di un popolo una Nazione. Una metropoli materialmente sommersa dalla spazzatura e l’istituzionalizzazione della schiavitù nelle campagne (per non parlare della criminalità organizzata) sono evidenze troppo clamorose per essere ignorate. Continuare a cambiare discorso riproponendo luoghi comuni ormai logori, significa sostanzialmente dire che le cose vanno bene così.

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