Dall’Ogm-free al Free Ogm: in nome del buon senso e della tutela del consumatore
Questo dossier è stato pubblicato in due puntate su Libertiamo, il 16/02/2010 e il 17/02/2010
E’ interessante l’inchiesta di copertina sugli Ogm (Organismi Geneticamente Modificati) apparsa sull’ultimo numero dell’Espresso, ed è sicuramente un fatto positivo che la questione sia tornata in primo piano. Abbastanza orientata ideologicamente, l’inchiesta offre però degli spunti interessanti di discussione partendo da un dato: sulle tavole degli italiani gli Ogm sono presenti in abbondanza.
(…)”Produrre i mangimi convenzionali è costosissimo. Ecco perché l’Ogm è diventato indispensabile anche nelle filiere che producono Dop”, dicono all’ Assozoo, che riunisce i maggiori produttori italiani di mangimi.
(…) Tutto secondo le regole, beninteso. La soia RR o il mais Mon 810 hanno i documenti a posto. Hanno superato i test dell’Efsa di Parma, l’autorità europea per la sicurezza alimentare, per cui possono varcare le frontiere. E finire nelle mangiatoie: dalle stalle produttrici del latte, ai prosciuttifici. Senza l’obbligo di esplicitarlo sulle etichette del prodotto finale.
Protetti dalle concentrazioni minime che non obbligano a dichiararli in etichetta. O trasformati in proteine nei gelati del futuro che non si scioglieranno mai. Occultati tra farine e bevande di soia, le stesse che ogni giorno passano i confini schivando i controlli. E soprattutto serviti quotidianamente nelle stalle, dove il menù di mucche, maiali, polli e tacchini è sempre più Ogm: geneticamente modificato. Ogni anno negli allevamenti italiani si consumano quasi 4 milioni di tonnellate di soia transgenica, un quarto del fabbisogno totale.
La situazione è questa: i consumatori italiani si ritrovano nel piatto prodotti che agli agricoltori italiani è proibito coltivare. Infatti gli Ogm, come sottolinea giustamente Tommaso Cerno, autore dell’inchiesta, arrivano sulle nostre tavole dall’estero, attraverso la soglia minima dello 0,9 percento, o attraverso i mangimi. All’estero gli Ogm si coltivano, eccome. E non solo negli Stati Uniti, in Brasile e Argentina, dove queste colture hanno risollevato il comparto agricolo, abbattendo i costi e alzando le rese, ma anche nell’Unione Europea, soprattutto nella Spagna dell’idolo progressista Zapatero, dove il mais Gm (Geneticamente Modificato) è coltivato dal 1998 e che da sola occupa il 73,6% della superficie agricola coltivata con Ogm in Europa (secondo i dati forniti dall’Espresso).
Di fronte a queste cifre, continuare a difendere la purezza ariana delle nostre produzioni autarchiche sembra essere un’impresa sciocca e destinata al fallimento. Oltre che ipocrita, dal momento che si racconta ai consumatori che in Italia gli Ogm non ci sono, mentre invece ci sono. Se non ci sono perché dannosi per la salute, come si continua a sostenere, perché li si può importare? E se non sono così dannosi per la salute, perché non li si può produrre? E’ una contraddizione destinata a sbriciolarsi in breve tempo, se le argomentazioni che la sostengono sono quelle di Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, che sull’Espresso esprime i suoi “no” agli Ogm, che sono poi gli stessi “no” del ministro Zaia, della Coldiretti e del movimento no-global: la coesistenza tra colture Gm e convenzionali, il principio di precauzione, la proprietà dei semi, la difesa della biodiversità, l’ecocompatibilità dell’agricoltura, il modello di sviluppo.
I problemi legati alla contaminazione delle colture convenzionali da parte di quelle Gm sono stati già risolti dalla scienza e dal diritto. La prima ha dimostrato che varietà selezionate in laboratorio sono assai meno persistenti, cioè meno resistenti nell’ambiente, di varietà prodotte dalla selezione naturale. Una prova si è avuta nel caso del mais Gm Starlink, tolto dal commercio nel 2001 perché considerato allergenico e il cui DNA era semplicemente sparito dall’ambiente già nel 2005 nonostante qualcuno già evocasse scenari apocalittici. Allo stesso modo le società che producono sementi geneticamente modificate pagano multe salatissime mettendo in commercio varietà in grado di ibridare significativamente colture circostanti. E’ successo recentemente alla Bayer, che ha dovuto pagare un milione e mezzo di dollari ciascuno a due agricoltori del Missouri che hanno dimostrato che i loro campi di riso erano stati contaminati da una coltivazione Gm proveniente da un campo sperimentale. Va comunque ricordato che la parola “contaminazione”, che evoca nel nostro immaginario luci rosse lampeggianti, sirene spiegate e disinfestatori in tuta sterile e maschera antigas, significa semplicemente che, attraverso l’impollinazione, una varietà Gm (comunque innocua per la salute) può incrociarsi con una varietà convenzionale provocando modificazioni al DNA dei semi prodotti da tale incrocio. Ma se è giusto preoccuparsi di quanta strada possono fare i pollini degli Ogm portati dal vento, sarebbe altrettanto corretto chiedersi quanti diserbanti, insetticidi e fitofarmaci in genere, la cui tossicità è già abbondantemente dimostrata, vengono trasportati dallo stesso vento dalle colture convenzionali a quelle Gm, che ne usano molti meno, a quelle biologiche, che non ne usano affatto, o più semplicemente nei nostri polmoni. Se vale il principio della tutela di ciò che è più sano, dovrebbero essere gli agricoltori convenzionali a dover rispettare delle distanze minime dalle colture Gm e bio, non il contrario.
Petrini sostiene poi che trent’anni di studi e ricerche sono un periodo troppo breve, e che oggi non siamo quindi ancora certi che gli Ogm non facciano male alla salute. “Questa scienza”, afferma, “è ancora rudimentale e in parte affidata al caso”. Sorvolando sul paradosso che in Italia è impossibile qualsiasi surplus di sperimentazione, in quanto è vietata anche la ricerca sugli Ogm, non solo la loro coltivazione, voglio raccontare la storia del Creso, la varietà di grano duro più diffusa in Italia, che non molti conoscono. Il grano duro Creso è un Ogm, di fatto se non di diritto. Lo è di fatto perché il suo DNA è stato modificato artificialmente, non lo è di diritto perché non è frutto dell’ingegneria genetica, dato nel suo genoma non sono stati inseriti geni di altri organismi. La mutazione genetica che ha dato vita al Creso è stata indotta, nel 1974, sottoponendo la varietà originaria ad un “bombardamento” di neutroni. E’ stata creata in questo modo, per approssimazioni, una varietà molto produttiva, molto resistente e diffusissima. Eppure per il Creso non è stato invocato il principio di precauzione. Nonostante la tecnologia che lo ha prodotto fosse enormemente più rudimentale della moderna ingegneria genetica, che agisce su specifiche molecole, e i cui risultati, quelli sì, fossero affidati prevalentemente al caso. Così come non viene invocato lo stesso principio prima di autorizzare la diffusione nell’ambiente di questo o di quel pesticida, o l’iscrizione di un farmaco nel ricettario del Servizio Sanitario Nazionale. Con gli Ogm si pretende un inversione dell’onere della prova la cui logica sfugge: si dà per scontato che siano dannosi a prescindere, e il loro uso verrà autorizzato se e quando sarà dimostrato il contrario. A differenza di tutti gli altri prodotti della tecnologia umana, che sono liberi a meno che non se ne dimostri la pericolosità. Ma probabilmente si sarebbe dovuto invocare il principio di precauzione anche prima di importare patate e pomodori dalle Americhe…
Quando poi si parla della titolarità dei semi, si scende nel paradosso. Petrini afferma, come aveva già fatto il ministro Zaia, che “con le sementi Gm la multinazionale è la titolare del seme: ad essa l’agricoltore deve rivolgersi per ogni nuova semina”, e che “le coltivazioni Gm snaturano il ruolo dell’agricoltore che da sempre migliora e seleziona le proprie sementi”. Ma dove? Su quale pianeta? Qual è il produttore di soia, di mais da granella o da insilato, di cereali in genere che non acquista ibridi ma seleziona in azienda i propri semi? Anche gli orticoltori acquistano i semi o ancora più spesso addirittura le piantine da trapiantare in campo aperto. Le campagne sono fisicamente lontane dalla vita della maggior parte dei consumatori, e quindi si possono evidentemente raccontare favole suggestive, ma Petrini fa riferimento a un’agricoltura di sussistenza che non esiste più da almeno mezzo secolo (per fortuna, aggiungerei, dato che all’epoca si selezionavano sementi e sapori, ma si soffriva la fame). Oggi gli agricoltori acquistano ibridi (convenzionali, ma anche bio) dalle stesse famigerate multinazionali che producono gli Ogm. Lo fanno perché rendono di più, sono più resistenti, e perché selezionare i semi procurerebbe loro un carico di lavoro e di costi che non potrebbero sostenere. Può piacere o non piacere, ma è così, e la liberalizzazione dell’uso degli Ogm non cambierebbe questa realtà di una virgola.
Un altro punto che sta a cuore a molti è la difesa dell’originalità e delle peculiarità dell’agroalimentare italiano e della biodiversità. Petrini dice che “i prodotti Gm non hanno legami culturali o storici con il territorio”. Ci si potrebbe chiedere, per amor di polemica, quali legami con il territorio abbia l’automobile di Petrini, il suo televisore, il suo personal computer, l’impianto di riscaldamento della sua casa. Slow Food ha svolto in questi anni un’opera straordinaria di valorizzazione e di divulgazione della ricchezza del nostro patrimonio agroalimentare. Ha soprattutto dimostrato che per i nostri prodotti tipici esiste un mercato che è molto più di una “nicchia”, che questi prodotti incontrano il gradimento dei consumatori che sono spesso disposti a pagare per essi un sovrapprezzo. Sono prodotti ad alto valore aggiunto, il cui mercato supera i confini nazionali e sono ricercati in tutto il mondo. Non capisco perché la concorrenza dei prodotti Gm debba mettere necessariamente in crisi questo settore. E se le colture Gm impoverirebbero la biodiversità perché “hanno bisogno di grandi superfici e di un sistema monoculturale intensivo”, la stessa geografia rurale del nostro paese, che non dispone di molte superfici con queste caratteristiche dimostra quanto sia infondato questo rischio. Non tutte le aziende agricole italiane, però, hanno la fortuna di ricadere in una zona Dop, cosa che garantirebbe un valore aggiunto ai loro prodotti a prescindere dalla loro reale qualità. Non tutti i territori del nostro paese possono vantare una tradizione di prodotti tipici ricercati. Perché agli agricoltori di quei territori non può essere consentito di cercare profitto seguendo altre strade, altrettanto legittime?
In realtà non è l’agricoltura di qualità ad essere minacciata dagli Ogm, ma quella convenzionale, che ha costi di produzione elevati, rese insoddisfacenti e per garantirsi queste rese fa un largo uso della chimica, diserbanti e insetticidi, per capirsi. L’esempio del mais resistente al glifosate è significativo. Il glifosate è un diserbante generico, nelle campagne è chiamato il “secca tutto”. Nonostante il nomignolo un po’ terrificante, il glifosate è un prodotto molto meno tossico dei diserbanti selettivi, che vengono irrorati sulle colture già sviluppate e che attaccano solo le erbe indesiderate, o parte di esse. Il “secca tutto” viene oggi usato solo sulle maggesi inerbite, per ripulirle prima della preparazione del letto di semina. Per difendere le coltivazioni nel loro sviluppo gli agricoltori devono usare più volte i diserbanti selettivi, costosissimi e altamente nocivi, come dimostra il fatto che per utilizzarli è necessario fare un corso e ottenere il rilascio di un apposito “patentino”. Con il mais Gm, invece, è possibile eliminare tutte le malerbe dai campi usando solo il glifosate, a cui il DNA di quella varietà di mais è resistente. I risultati sono molto migliori e i costi molto inferiori. E se è vero, come afferma Petrini, che esiste il pericolo che la “resistenza ad un diserbante porti ad un uso più disinvolto del medesimo nei campi”, io sono convinto che sia preferibile controllare che non avvengano abusi, piuttosto che proibire preventivamente limitando la libertà di chi quegli abusi non li commetterebbe. Comunque chi ha esperienza di lavoro agricolo sa quanto disinvolto sia l’uso della chimica oggi nelle campagne, frutto dell’insensata (ma lucrosa) promozione della stessa che i Consorzi Agrari e le stesse confederazioni agricole facevano nei decenni passati. Ogni innovazione che ne riduce l’uso è, secondo me, benvenuta.
Non ho molto da dire invece sulle tesi, assai controverse, che vedrebbero gli Ogm in prima fila per combattere la fame nel mondo, secondo alcuni, o portatori di miseria e carestie, secondo altri. In questo caso ci sono visioni ideologiche contrapposte che tendono entrambe, a mio avviso, a semplificare il problema. La miseria e la malnutrizione sono il frutto, nei paesi del Sud del Mondo, di molti fattori, primi fra tutti la mancanza di democrazia, la corruzione dei governi e l’iniqua distribuzione delle risorse, e non credo che l’introduzione degli Ogm rappresenti in sé la medicina per tutti i problemi. Che i magazzini del governo di un paese africano siano riempiti di scorte alimentari, qualsiasi sia la loro origine, non significa che queste scorte arrivino necessariamente alle popolazioni. Nonostante questo sono portato, per logica, a ritenere che ci siano meno rischi di malnutrizione quando c’è più roba da mangiare, e che decidere quali siano i prodotti che gli agricoltori dei paesi sottosviluppati possono coltivare, a prescindere dal loro parere, sia frutto di una visione paternalistica del progresso che nega il diritto allo sviluppo e alla ricerca del benessere, diritto di cui noi abbiamo usufruito a piene mani. “Gli Ogm sono figli di un modo miope e superficiale di intendere il progresso” afferma Petrini. Ma, come dicevo prima, la nostra agricoltura e le nostre campagne sono uscite da un’economia di sussistenza grazie allo stesso progresso di cui sono figli gli Ogm. Oggi chi vive in città ha nostalgia del mondo rurale di una volta, ma ci si dimentica della miseria, dell’emigrazione di massa, della fame, che c’era anche da noi. Nonostante non credo, come ripeto, che l’uso degli Ogm salverebbe il mondo dalla malnutrizione, negare opportunità di progresso a quei paesi in nome della memoria confusa e appannata del nostro “tempo che fu” è assolutamente ingiusto.
L’inchiesta dell’Espresso denuncia, con toni allarmati, che i consumatori sono senza difese. Prima che Zaia, la Coldiretti, Slow Food e quant’altri corrano in loro soccorso alzando nuovi recinti protezionisti, sarebbe necessario che i contribuenti sappiano che, quando acquistano un prodotto certificato e lo pagano più degli altri, hanno già pagato un sovrapprezzo per esso alla compilazione della dichiarazione dei redditi. E’ da un sistema del genere, che pretende che i cittadini vengano guidati nelle loro scelte, che attribuisce alla politica e alla burocrazia e non al gusto degli individui il compito di certificare la qualità dei prodotti, che dovrebbero essere difesi i consumatori, più che dalla possibilità di acquistare consapevolmente un prodotto che contiene Ogm.
Un paese che passa dall’Ogm-free al free Ogm è semplicemente un paese che garantisce, per il suo sistema produttivo e per i suoi consumatori, un’opportunità in più.
Sullo stesso argomento consiglio la lettura dell’intervista del Giornale al biotecnologo Francesco Sala e della risposta a Petrini di Dario Bressanini su “Scienza e Cucina”.
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