Boicottando le aziende israeliane si condannano i territori al sottosviluppo
Chicago Blog – 26/05/2010
La polemica nata in questi giorni attorno all’ipotesi, comunicata con toni trionfalistici da alcune associazioni pacifiste, che Coop e Conad avessero aderito ad una campagna di boicottaggio dei prodotti di aziende israeliane con impianti nei territori occupati, ipotesi che pare essere finora smentita solo da Conad, suggerisce alcune riflessioni.
Lo sviluppo e le opportunità di crescita dei territori occupati, così come di qualsiasi altra zona disagiata del mondo, deriva dagli investimenti che le imprese decidono di fare in quelle zone. Solo questo può creare posti di lavoro, maggior reddito procapite, sviluppo ed emancipazione. Per i territori occupati è una straordinaria fortuna la presenza delle imprese israeliane, una fortuna che in genere non hanno le altre zone non ancora pacificate del pianeta, dove in genere nessuno va a rischiare i propri soldi. Certo, le imprese israeliane possono investire in Cisgiordania, al di qua e al di là della green line, grazie allo stato di relativa sicurezza garantito dall’esercito israeliano.
E non potrebbe essere altrimenti: quando, nel 2006, gli israeliani abbandonarono la striscia di Gaza, lasciarono a disposizione dei palestinesi serre ed impianti all’avanguardia, che avrebbero fatto la fortuna di chiunque. Ebbene, questi impianti furono distrutti da Hamas nel giro di pochi giorni, e questo più di ogni altra cosa ha condannato gli abitanti di Gaza all’indigenza. Il fatto che sui siti delle associazioni pacifiste che sostengono il boicottaggio si parli di sfruttamento dei palestinesi da parte delle aziende israeliane in cerca di profitti, la dice lunga sul senso della realtà e sulla matrice ideologica di queste campagne che purtroppo stanno avendo successo un po’ in tutta Europa, in questo caso sospinte anche dal vento dell’antisemitismo arabo: lo stesso terzomondismo marxista che individua negli investimenti stranieri la causa del sottosviluppo e non la sua più efficace medicina.
Chi oggi vorrebbe che le aziende israeliane abbandonassero i territori occupati, vorrebbe in realtà condannare i palestinesi della Cisgiordania allo stesso destino di quelli di Gaza: senza opportunità, senza lavoro, e con la magra soddisfazione di poter strumentalmente additare Israele come capro espiatorio per le loro disgrazie. Un bel risultato. Dovremmo rifletterci quando sentiamo i dirigenti della Coop parlare di modalità di tracciabilità commerciale che risolvano
l’esigenza di un consumatore che voglia esercitare un legittimo diritto di non acquistare prodotti di determinate provenienze.
Chi ha a cuore l’emancipazione dei palestinesi e lo sviluppo della loro terra dovrebbe acquistare proprio quei prodotti, piuttosto che boicottarli.
La polemica nata in questi giorni attorno all’ipotesi, comunicata con toni trionfalistici da alcune associazioni pacifiste, che Coop e Conad avessero aderito ad una campagna di boicottaggio dei prodotti di aziende israeliane con impianti nei territori occupati, ipotesi che pare essere finora smentita solo da Conad, suggerisce alcune riflessioni.
Lo sviluppo e le opportunità di crescita dei territori occupati, così come di qualsiasi altra zona disagiata del mondo, deriva dagli investimenti che le imprese decidono di fare in quelle zone. Solo questo può creare posti di lavoro, maggior reddito procapite, sviluppo ed emancipazione. Per i territori occupati è una straordinaria fortuna la presenza delle imprese israeliane, una fortuna che in genere non hanno le altre zone non ancora pacificate del pianeta, dove in genere nessuno va a rischiare i propri soldi. Certo, le imprese israeliane possono investire in Cisgiordania, al di qua e al di là della green line, grazie allo stato di relativa sicurezza garantito dall’esercito israeliano.
E non potrebbe essere altrimenti: quando, nel 2006, gli israeliani abbandonarono la striscia di Gaza, lasciarono a disposizione dei palestinesi serre ed impianti all’avanguardia, che avrebbero fatto la fortuna di chiunque. Ebbene, questi impianti furono distrutti da Hamas nel giro di pochi giorni, e questo più di ogni altra cosa ha condannato gli abitanti di Gaza all’indigenza. Il fatto che sui siti delle associazioni pacifiste che sostengono il boicottaggio si parli di sfruttamento dei palestinesi da parte delle aziende israeliane in cerca di profitti, la dice lunga sul senso della realtà e sulla matrice ideologica di queste campagne che purtroppo stanno avendo successo un po’ in tutta Europa, in questo caso sospinte anche dal vento dell’antisemitismo arabo: lo stesso terzomondismo marxista che individua negli investimenti stranieri la causa del sottosviluppo e non la sua più efficace medicina.
Chi oggi vorrebbe che le aziende israeliane abbandonassero i territori occupati, vorrebbe in realtà condannare i palestinesi della Cisgiordania allo stesso destino di quelli di Gaza: senza opportunità, senza lavoro, e con la magra soddisfazione di poter strumentalmente additare Israele come capro espiatorio per le loro disgrazie. Un bel risultato. Dovremmo rifletterci quando sentiamo i dirigenti della Coop parlare di modalità di tracciabilità commerciale che risolvano
l’esigenza di un consumatore che voglia esercitare un legittimo diritto di non acquistare prodotti di determinate provenienze.
Chi ha a cuore l’emancipazione dei palestinesi e lo sviluppo della loro terra dovrebbe acquistare proprio quei prodotti, piuttosto che boicottarli.
FORSE FAREBBE BENE A INFORMARSI MEGLIO…