Navi cariche di protezionismo
Chicago Blog – 07/06/2010
Nell’azione dimostrativa messa in atto giovedì scorso da Coldiretti al porto di Ancona c’è molto più che la semplice protesta contro i “falsi made in Italy” che contaminerebbero il nostro agroalimentare e farebbero crollare i prezzi dei nostri prodotti agricoli. Al porto del capolugo marchigiano arrivano infatti ogni anno carichi di cereali e oleaginose, destinate al nostro mercato interno. Nelle dichiarazioni degli organizzatori della protesta si legge che nel porto di Ancona
ogni ora entrano 10.000 chilogrammi di grano straniero pronti a diventare ‘marchigiani’, con l’effetto di far crollare i prezzi dei prodotti delle nostre campagne (da 0,50 euro al chilo a 0,13 in due anni) e ingannare i consumatori.
Non conosco le cifre esatte sulla quantità di merci in entrata nei nostri porti, quindi posso prendere anche per buona una cifra, quella di 10 tonnellate di grano duro ogni ora, che a naso mi sembrerebbe un po’ sparata lì. Comunque in questa dichiarazione ci sono due grossolane ed evidenti stupidaggini. Non si può dire che il grano, entrando sul nostro territorio, “diventa” italiano, equiparando l’uso di una materia prima di origine estera alla pirateria commerciale e alla falsificazione del Made in Italy certificato. I nostri molini e i nostri pastifici si possono rifornire dove meglio credono, e se l’offerta interna non è in grado, per quantità, costi e qualità, di soddisfare la domanda, le ragioni vanno ricercate altrove. Eppure questo è il messaggio che si cerca di far passare: vendere da noi è un crimine che va in qualche modo impedito.
La seconda stupidaggine è quella che riguarda i prezzi: si vorrebbe far credere che il prezzo di 0,50 euro al chilo fosse il prezzo standard del grano duro fino a due anni fa, e che poi c’è stato un crollo. Con affermazioni del genere si possono prendere per il naso i consumatori che hanno una scarsa dimestichezza con la terra, non certo gli agricoltori: l’impennata improvvisa che ha portato a (quasi) 0,50 euro al chilo il prezzo del grano duro nell’estate del 2008 è stata originata dalle stesse circostanze che hanno portato, nello stesso periodo, il prezzo del petrolio a sfiorare i 150 dollari al barile. Dopo quell’estate, che aveva fatto ben sperare molti agricoltori, il prezzo è tornato ai suoi livelli di sempre: tra 0,13 e 0,15 euro al chilo. Mentre scrivo, per esempio, il grano duro è quotato attorno a 0,16 euro al chilo alla Borsa Merci di Bologna, ed è probabile che tra giugno e luglio, nel periodo della raccolta, subirà una flessione.
Dietro a questo atteggiamento, che vediamo sempre più propagandato dai media e da associazioni agricole che sembrano essersi sempre più votate ad una presunta tutela del consumatore piuttosto che del settore agricolo, c’è l’idea che dal mercato possano venire solo guai, e che per uscire dai guai bisogna alzare muri, imporre barriere, costruire recinti, che si chiamino tariffe doganali (come se ce ne fossero poche) o che invece prendano la forma più sofisticata delle certificazioni d’origine.
Ma non sembra essere solo una nostra fissazione, anzi, se ci capita di sentire il ministro dell’agricoltura francese Bruno le Maire lanciarsi in tesi spericolate e anche un po’ grottesche come quelle sostenute a Merida, in Spagna, dove i ministri dell’agricoltura dei paesi dell’Unione Europea si sono riuniti per cominciare a discutere le linee della riforma della Politica Agricola Comune:
Recentemente abbiamo sperimentato gli effetti molto negativi della deregulation totale dei mercati
ha dichiarato, senza scatenare l’ilarità degli astanti, che invece sembrano convergere sull’idea che sia venuta l’ora di “proteggere” e regolamentare ulteriormente il mercato agricolo europeo, come se la prospettiva di difendere lo status quo fosse in qualche misura una prospettiva attraente.
Io credo che l’agricoltura italiana (ed europea) ha bisogno di competitività, non di prezzi garantiti, e che dalle fluttuazioni dei prezzi delle grandi commodities agricole le aziende potrebbero anche trarre profitto, se fosse loro consentito di raggiungere economie di scala adeguate. Bisognerebbe fare a meno dei sussidi, però.
Questa storia dei falsi made in Italy e’ alquanto grottesca. Le imitazioni esistono, e vengono fatte anche in Italia: i nostri supermercati sono colmi di falsi formaggi svizzeri e olandesi, di finti cognac, whisky e vodka, di salami ungheresi fasulli, e cosi via, tutti made in Italy.
E poi si incazzano se fanno il parmigiano in Germania?