Si scrive “tipico”, si legge “protezionistico”
Su salmone.org Antonio Pascale fa le pulci all’agroalimentare tipico italiano, e quello che ne viene fuori è un quadro sorprendente: i cosiddetti prodotti tipici rappresentano il 4% del fatturato agroalimentare italiano (il 6% dell’export).
Dunque, è un buon affare, sì, ma per pochi- altra caratteristica italiana- perché 5 denominazioni (Parmigiano, Grana, i due prosciutti e mozzarella di bufala) rappresentano il 70% circa del valore del tipico alla produzione, al consumo e all’esportazione. Allora, qua il sospetto ci viene: il tipico è un prodotto che assomiglia terribilmente ad altri – e che spuntano prezzi inferiori – ma che rispetto a questi altri ha un prezzo più alto. Per di più, le denominazioni controllate nel resto del mondo sono viste come un tentativo di salvare il protezionismo agricolo dell’Ue – quelle italiane, poi, e la maniera di gestirle sono criticate nella stessa Ue.
Il tipico non pare un buon affare per i consumatori, quindi, per i quali il marchio certificato rappresenta un sovrapprezzo paragonabile a quello delle griffes dell’abbigliamento, né per le aziende agricole, o almeno per la stragrande maggioranza di esse che ai recinti protetti delle Dop-Igp non hanno accesso.
Ma è per proteggere dalla concorrenza quel 4% di fatturato che stiamo sacrificando l’agricoltura italiana nel suo complesso, escludendola dall’accesso alle tecnologie e isolandola dalle opportunità del mercato. Complimenti.