Il processo breve non è una priorità. La riforma della giustizia sì
Libertiamo – 01/09/2010
Secondo Luca Palamara, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, il “processo breve” non è una priorità. Per una volta nella vita sono d’accordo con lui. La priorità è la riforma della magistratura, e qui invece non credo, a naso, che Palamara sarebbe d’accordo con me.
Uno degli equivoci che si sono calcificati ormai sul fondo del barile della Seconda Repubblica è quello secondo il quale la riforma della magistratura sia utile soltanto per rendere il potere giudiziario dipendente da quello esecutivo, e che di conseguenza chiunque ne sostenga in qualche modo la necessità e l’urgenza lo faccia per garantire un salvacondotto di impunità alla politica. Invece la riforma del sistema giudiziario italiano è necessaria per un motivo molto più semplice e banale: la giustizia non funziona, e in un paese normale ciò che non funziona si cambia.
Sarà pur vero che il fatalismo è un tratto peculiare del carattere degli italiani, ma non credo che i cittadini di questo Paese siano rassegnati al punto di considerare il malfunzionamento della giustizia italiana come un fatto ineluttabile, come le maree o l’inclinazione dell’asse terrestre. O forse sì, dato che sembra che la percezione generale a proposito dei problemi del sistema giudiziario (percezione fortemente agevolata da tutti i protagonisti istituzionali dell’ormai pluridecennale dibattito) assuma come dato fisso e immutabile che la giustizia funzioni come funziona, cioè tremendamente male, e che le uniche variabili possibili siano una cattiva giustizia indipendente o una cattiva giustizia asservita all’esecutivo.
Eppure una giustizia rapida, certa e efficiente, cioè tutto il contrario di quella che ci offre la nostra autogovernata magistratura, costituisce uno di quei banalissimi fattori di civiltà che possono fare la differenza tra un paese civile e progredito e una repubblica delle banane. Dato che sia nei paesi civili e progrediti che nelle repubbliche delle banane le controversie vengono risolte davanti a un giudice, ciò che distingue i primi dalle seconde è il tempo in cui la controversia viene risolta. E in questo siamo messi piuttosto male, dato che la maggior parte dei paesi del terzo mondo possono vantare tempi più rapidi dei nostri (non è un modo di dire, sono state compilate interessanti graduatorie al riguardo).
E dato che tra le controversie che la magistratura è chiamata a risolvere ci sono anche quelle contrattuali, il fattore di civiltà di una buona giustizia è anche uno straordinario fattore di produttività. Il tempo necessario ad ottenere il pagamento di un credito commerciale, o quello necessario ad ottenere una risposta definitiva per un licenziamento per giusta causa, sono aspetti che fanno la differenza quando si decide se investire o meno: dato che la globalizzazione offre delle alternative, la differenza oggi è tra investire qui o altrove (o, se si vuole restare nell’attualità, tra rimanere qui o andarsene).
Per non parlare del contesto in cui le imprese si trovano ad operare, che può essere fatto di criminalità e corruzione diffuse e scarsamente contrastate, oppure di legalità e competizione trasparente. L’economia di un paese con una giustizia che funziona è sana, produttiva e in grado di attrarre investimenti, l’economia di un paese dove la giustizia non funziona è generalmente dominata dalla prepotenza e dal malaffare.
Ora, se il problema è la durata biblica dei procedimenti civili e penali, per risolverlo si possono percorrere due strade (in realtà se ne dovrebbe percorrere solo una, la prima, ma, dato che oggi c’è un’altra possibilità sul tavolo, sforziamoci di considerare anche questa un’opzione praticabile). La prima strada è quella di verificare quali siano le cause reali per cui i processi durano così tanto, e provare ad usare il potere di cui si è investiti per rimuovere quelle cause.
Si potrebbe allora verificare che le carriere (e le retribuzioni) dei magistrati avanzano solo per scatti di anzianità e non per meriti professionali acquisiti, che gli esami per le promozioni sono una farsa, dato che li superano il 99,6% dei candidati, e che la sezione disciplinare del CSM è una specie di binario morto nel quale solo lo 0,065% dei giudici rischia di perdere il posto e quasi nessuno viene mai sanzionato per comportamenti scorretti o illeciti. Ovvero che un giudice, una volta divenuto tale, sa con certezza che la sua carriera è garantita fino alla pensione, a prescindere dai modi e dai tempi in cui svolge le sue mansioni.
E questo, sia chiaro, non vuol dire che i magistrati siano dei lavativi. Si tratta però di ammettere che il potere pressoché assoluto che l’ANM esercita sul Consiglio Superiore della Magistratura ha trasformato gli uffici giudiziari italiani in un contesto in cui non fare il proprio dovere rende tanto quanto farlo, se non di più. Ci si potrebbe chiedere se questo sia un modo intelligente di gestire le enormi risorse economiche che la macchina giudiziaria italiana divora invano, e se le risorse umane – i magistrati – siano impiegate in modo produttivo oppure no, e, una volta ricavata la facile risposta, si potrebbe provare a cambiare radicalmente le cose.
Oppure, e questa è la seconda strada, ci si potrebbe preoccupare solo dell’aspetto superficiale della questione, e provvedere ad una “riformina” che, evitando accuratamente di scalfire i privilegi corporativi che rendono la nostra magistratura una delle più lente e inefficienti del pianeta, preveda l’annullamento di alcuni procedimenti penali che durino più di un “tot”.
Il “processo breve” taglia, non accorcia la durata dei processi: il beneficio puramente statistico di procedimenti penali chiusi (ma non necessariamente risolti) in più breve tempo verrebbe controbilanciato negativamente da una diminuzione proporzionale della certezza del diritto, dato che un processo chiuso per prescrizione non corrisponde necessariamente, anzi non corrisponde mai, a una controversia risolta, a una responsabilità penale definitivamente attribuita. Non è quindi una priorità, ha ragione Palamara.
Non è una priorità perché rimanda ancora una volta a data da destinarsi la vera priorità: una riforma della magistratura (tutta, sia civile che penale) e del suo organo di autogoverno che attribuisca banali elementi di responsabilità al lavoro dei magistrati e di merito alle loro carriere, che imponga criteri manageriali nella gestione degli uffici giudiziari, che espropri definitivamente il sindacato dei giudici dal potere assoluto che esercita sui concorsi e sui procedimenti disciplinari. In sostanza, che restituisca alla madre di tutte le caste la dignità e la credibilità che dovrebbero essere proprie di un potere dello Stato.
Ma Luca Palamara da questo orecchio ci sente? Poche settimane fa l’ANM pretendeva che accettassimo uno stravagante principio secondo il quale le retribuzioni dei magistrati e il meccanismo attraverso il quale aumentano automaticamente dovessero essere considerate alla stregua di un fondamento costituzionale intangibile, dato che bloccare gli aumenti di stipendio ai magistrati avrebbe minato in qualche imperscrutabile modo la loro indipendenza economica e quindi la loro imparzialità nel giudicare. Quali siano le sue priorità, non credo valga neanche la pena chiederselo.