Il fuoco e la paglia
“Prima arate e dopo andate in giro” intimava ogni mattina mia nonna. E quelli tutti in fila coi buoi a rivoltare la terra che ancora fumava dal fuoco delle stoppie, che a quei tempi si bruciavano ancora. La stoppia è quel pezzo di gambo che rimane attaccato al terreno dopo che la spiga è stata tagliata. Rimane tutto dritto e spunciuto che magari da lontano uno pensa: “E’ paglia”. Ma se lei ci cammina di pianta sopra – a piedi nudi come andavamo tutti, allora – la stoppia le buca il piede per quanto è ritta, pare un chiodo. A queste stoppie gli si dava fuoco e lei vedeva da tutte le parti alzarsi una fumèra alta e diffusa, un fumo che si levava dappertutto dai campi delle stoppie.
Adesso non le bruciano più. Subito dopo la mietitura arano con le stoppie ritte e secche lì sul campo e l’aratro – rivoltando la zolla – le manda al di sotto del nuovo strato di humus. Dicono gli agronomi che faccia da concime e, anzi, se tu adesso ti metti a dare fuoco, subito arrivano i vigili del fuoco a spegnere e ti denunciano come piromane, incendiario, e ti fanno la multa perché inquini l’ambiente con il fumo. Però i nostri vecchi bruciavano le stoppie per pulire la terra. bruciavano e sanavano, e così morivano le infestanti – i semi di infestante – i microbi e le malattie moleste, perché anche la terra s’ammala e abbisogna di cure. Il fuoco era una cura, la rigenerava. Era terapia e profilassi del terreno. E comunque era concime anche quello, almeno la cenere che restava.
Antonio Pennacchi, Canale Mussolini, Mondadori
Ci sono belle immagini di un’agricoltura che non c’è più nel libro di Pennacchi, e alcune, come questa, fanno riflettere. All’epoca si trebbiava sull’aia, portando alla macchina i covoni di grano, ed erano pochi i residui che rimanevano sul campo. Poi, con l’arrivo delle mietitrebbiatrici, alle stoppie si è aggiunta la paglia, che rimane sul terreno in lunghi cordoni. Per eliminarla si poteva ricorrere alla pressatura, per riutilizzarla negli allevamenti, ma se la paglia costa poco e non vale la pena pressarla le uniche soluzioni sono la bruciatura o la trinciatura.
Quest’ultima operazione richiede un ulteriore passaggio sul terreno, e quindi un dispendio di tempo e carburante solo per sminuzzare la paglia e poterla interrare meglio nelle successive lavorazioni, mentre la bruciatura è stata considerata per anni un buon sistema per smaltire i residui, dato che permetteva anche una fertilizzazione del terreno con la cenere (la paglia secca fertilizza ben poco, se non è unita a sostanza organica, come letame o a una schizzata di urea granulare) e, soprattutto, un buon controllo preventivo delle infestanti, attraverso la bruciatura dei malsemi. Infatti tutto quello che la trebbia scarta ricade inevitabilmente sul terreno, compresi i semi delle erbe infestanti che una volta, almeno in parte, finivano nell’aia coi covoni.
Viene da pensare, a naso, che la bruciatura delle stoppie sia un buona pratica in agricoltura biologica: è una metodologia tradizionale (Emilio Sereni ha descritto in diversi saggi il ruolo del debbio nella storia del paesaggio agrario italiano, dal neolitico ad oggi), riduce il calpestamento del terreno, evita la trinciatura che comporta sempre e comunque consumo di gasolio ed è, cosa più importante, un sistema di controllo preventivo delle infestanti e dei parassiti. Cosa che riduce, in un processo a catena, ulteriori ricorsi a sistemi di controllo meccanico delle infestanti sulla coltura successiva (sempre calpestamento del terreno, sempre consumo di gasolio, sempre costi ulteriori per l’agricoltore).
Si, c’è un problema: bruciare le stoppie è cosa pericolosa: se non si fa attenzione, e a volte anche se se ne fa, si possono scatenare incendi, cosa che dalle nostre parti, in piena estate, è sempre meglio evitare. E infatti la bruciatura delle stoppie è vietata, come ci ricorda Daniele Pennacchi, secondo regolamenti che variano da territorio a territorio, in genere dal 1 giugno al 30 settembre. Poi si può, ma spesso è tardi, e gli agricoltori preferiscono non aspettare la fine dell’estate per liberarsi della paglia e cominciare le lavorazioni del terreno in un momento in cui la pioggia può mettersi fastidiosamente di mezzo.
Ma c’è comunque qualcuno che continua: dalle mie parti, come in tutta la Val d’Orcia e in parte della Maremma, è frequente alternare il grano al trifoglio squarroso, un’erba foraggera che qui, grazie ai terreni argillosi, viene portata a seme e trebbiata. Dato che non bisogna arare il terreno per il trifoglio, ma è sufficiente una leggera erpicatura, alcuni aspettano la fine di settembre, bruciano le stoppie, ripassano velocemente il terreno e procedono alla semina. Qualcuno dice che così si evita una passata di diserbante.
Ma se hai un’azienda biologica non puoi: nonostante il regolamento CEE 2092/91 (il primo che ha regolamentato l’agricoltura biologica) indicasse la bruciatura delle infestanti tra le pratiche ammesse e consigliate, e l’ultimo regolamento CE 834/2007 non ne faccia menzione, tutti gli enti certificatori nostrani la vietano tassativamente. Cosa che dimostra come in realtà chi si occupa di agricoltura biologica in Italia non capisce un piffero di agricoltura, ma prenda genericamente spunto da comportamenti “ecologicamente corretti” (bruciare le stoppie produce CO2, immagino sia questo il problema) per stilare leggi e regolamenti.