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‘Datemi una zucca e vi salverò l’Africa’. Slow Food e il terzomondismo razzista

27 settembre 2010

Libertiamo – 27/09/2010

Vale davvero la pena chiedersi ancora se lo sviluppo passi attraverso il ricorso a nuove tecnologie e il loro progressivo perfezionamento o piuttosto attraverso la strenua salvaguardia di tecnologie ormai antiquate? Senz’altro è una domanda piuttosto oziosa se si guarda alla storia dell’Occidente e al livello di benessere raggiunto dalle sue popolazioni, ma è una domanda paradossalmente ancora d’attualità quando si pensa ad altre zone del pianeta, in particolare al continente africano.

Slow Food, ad esempio, sembra già avere la risposta, e si prepara a lanciare, in occasione del raduno dei social forum di Terra Madre che si terrà a Torino alla fine di ottobre, un’iniziativa che consiste nel promuovere il ritorno all’agricoltura tradizionale in Africa. Il presupposto che sta alla base dell’iniziativa (come di molte altre analoghe) è il seguente: in Africa si stanno sviluppando le monocolture industriali, e quindi i contadini, non potendo più coltivare ciò che serve al loro diretto sostentamento, sono costretti all’indigenza e alla fame. Afferma Petrini:

La pressione delle multinazionali, delle monocolture finalizzate all’esportazione, dei pesticidi, dell’urbanizzazione, dell’avanzata del deserto ha stravolto equilibri secolari. Nelle bidonville in crescita violenta si è persa la memoria dei saperi alimentari che consentivano di sopravvivere anche in condizioni molto difficili e i prodotti della tradizione sono stati sostituiti dal fast food.

Questo modo di ragionare prescinde da alcune banalissime evidenze, che forse vale la pena ricordare. In primo luogo, gli agricoltori coltivano la terra per ricavarne profitto, più che per ricavarne sostentamento diretto, e questo avviene all’incirca dal neolitico. Se gli agricoltori africani preferiscono coltivare banane o anacardi destinati all’esportazione, evidentemente ritengono che per loro sia più vantaggioso che coltivare zucche per la famiglia, e che il reddito che ne ricaveranno sia una fonte di sostentamento migliore. Se non fosse così, semplicemente si comporterebbero diversamente.

Probabilmente preferiscono avere un po’ di disponibilità di denaro, piuttosto che di zucche, e pensano che questo offra loro maggiori opportunità, anche semplicemente nelle scelte alimentari. E infatti ciò di cui si lamentano gli amici di Slow Food sono proprio degli inequivocabili segni di sviluppo, come l’apertura dei fast food nelle città, o il ricorso al dado da brodo industriale (“imposto con un’ossessionante campagna di marketing”, si dice) che avrebbe soppiantato prodotti tradizionali in grado di conferire sapidità ai cibi.

Se un piccolo produttore di riso senegalese preferisce impiegare varietà alloctone come il riso proveniente dal Sud Est asiatico, evidentemente ne avrà sperimentato la maggiore produttività, o l’economicità produttiva, o il maggior gradimento da parte del mercato (sia che si tratti del mercato su scala ridotta di una piccola comunità agricola che quello dell’export agroalimentare globale). E un ragionamento analogo sarà stato fatto, con tutta probabilità, anche da chi ha preferito abbandonare il proprio orto per fare il bracciante in una piantagione o l’operaio in una megalopoli. E sicuramente non avrà bisogno di qualcuno che venga a dirgli, nei ritagli di tempo tra una degustazione di vini toscani e una di formaggi di malga, ciò che è meglio per lui e la sua famiglia.

Ciò che sembra un patrimonio insostituibile di biodiversità per i consumatori occidentali può avere tutt’altro aspetto per gli agricoltori e le famiglie africane. E’ probabile anzi che per essi ci sia più biodiversità tra gli scaffali di un emporio, per quanto piccolo, che nel proprio orto. Anche nella nostra storia recente, recuperabile facendo ricorso alla memoria di nonni e genitori, si possono ritrovare le malattie e i sintomi della malnutrizione derivanti dal consumo esclusivo dei prodotti di un’agricoltura di sussistenza.

L’osservazione della realtà suggerisce che proprio gli investimenti stranieri, anche in agricoltura, stanno lentamente consentendo a molti africani di oltrepassare la soglia di povertà, almeno in quei paesi dove questi investimenti sono benvenuti. Come ha ripetuto più volte l’economista zambiana Dambisa Moyo, la liberalizzazione del mercato dei prodotti agricoli è una delle chiavi per l’emancipazione del continente africano. Ma è una realtà difficile da prendere in considerazione per chi da una parte sostiene la necessità di sussidiare l’agricoltura europea (cosa che costituisce in primo luogo una barriera protezionistica contro i prodotti agricoli dei paesi in via di sviluppo) e dall’altra pretende che l’Africa dovrebbe “difendere l’equilibrio ambientale e sociale dei villaggi” moltiplicando gli “orti in cui si coltiva la zucca di Lare e l’ortica”.

Questa strenua difesa dello status quo, alla base dell’ideologia di Slow Food, può trovare un buon numero di sostenitori tra coloro che cercano di salvaguardare il reddito degli agricoltori europei, ma si manifesta in tutta la sua paradossalità (e profondo razzismo) quando si oppone al progresso e allo sviluppo del continente africano.

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5 commenti leave one →
  1. ganavion permalink
    27 settembre 2010 20:25

    Questa è un’intollerabile forma di razzismo e colonialismo, che vorrebbe mantenere il terzo mondo nella fame e nella miseria.
    I metodi antichi non producono sufficiente cibo, e quindi questo significherebbe carestie e morte.
    Chi difende questo ecoimperialismo ne prenda atto e sappia da che parte sta. Quella degli affamatori.
    Secondo me.

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