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La spesa a km zero: una moda effimera

25 ottobre 2010

Se volete conoscere il futuro della spesa locale, studiate la storia.

L’opposizione alle importazioni di generi alimentari è probabilmente antica quanto il commercio su lunghe distanze. Nessuno si è mai fidato troppo di fornitori stranieri, così come gli agricoltori non hanno mai gradito una competizione sui prezzi. Per molti aspetti, il movimento attuale in sostegno della spesa a km zero ricorda ciò che è avvenuto nel centro della Pennsylvania negli anni ’10 del 1900, quando dei significativi miglioramenti nei trasporti ferroviari hanno permesso ai produttori di altri Stati, soprattutto dal Maryland, di vendere i loro prodotti agricoli a prezzi più bassi di quelli dei produttori locali.

In quell’occasione una campagna di sostegno alla spesa locale ha avuto un successo temporaneo in Pennsylvania, ma i consumatori hanno alla fine votato con i loro dollari, e hanno preferito i prodotti migliori al prezzo migliore.

E’ così che funziona il mondo moderno: le persone si specializzano per produrre nei settori che conoscono meglio e commerciano gli uni con gli altri.

Ovviamente c’è spazio per i prodoti dell’agricoltura locale. Mia moglie ed io andiamo spesso a fare la spesa nei mercati locali ed amiamo andare nella regione del Niagara per acquistare vino direttamente dai produttori. Ma lo facciamo più che altro per il nostro piacere. La maggior parte delle persone, la maggior parte delle volte, non vuole pagare di più quando la qualità è confrontabile.

Non bisognerebbe dare troppa importanza alla moda della spesa a km zero, perché in fondo non è che una forma di solidarietà, e la carità non è mai una base solida e duratura per un’attività imprenditoriale.

Le economie più solide hanno necessariamente un vantaggio. Il Perù, per esempio, è diventato il più grande esportatore di asparagi del mondo, in virtù del clima caldo, della qualità dei suoli e dell’abbondanza della mano d’opera. La resa dei raccolti peruviani di asparagi è 3,7 volte superiore a quella degli Stati Uniti. E’ necessaria meno energia per produrli e costa molto meno importare asparagi peruviani in Ontario con gli aerei che produrli localmente o importarli dal Michigan su gomma.

Anche se le distanze sono più grandi, l’impatto ambientale delle produzioni dal Perù è inferiore, perché è la produzione, e non il trasporto, il segmento che richiede un consumo maggiore di energia nella filiera agroalimentare.

Il decennio passato è stato uno dei più prosperi e un buon numero di consumatori si sono potuti permettere il lusso di pagare prezzi più elevati per del cibo che aveva una “bella storia” da raccontare o che li faceva sentire virtuosi. Ma oggi siamo di fronte a tempi più duri, e i consumatori si orienteranno verso alternative più convenienti.

Per queste ragioni, ciò che vorrei dire agli agricoltori non competitivi che stanno facendo affari grazie alla moda della spesa a km zero è semplicemente questo: approfittatene finché dura.

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3 commenti leave one →
  1. Lorenzo permalink
    26 ottobre 2010 15:26

    Giusto appunto gli asparagi! Proprio quando il guardian (ripreso da Internazionale) pubblica un articolo su come “l’amore inglese per gli asparagi sta prosciugando i pozzi del perù”.
    Qui: http://www.guardian.co.uk/environment/2010/sep/15/peru-asparagus-british-wells

    L.

  2. 26 ottobre 2010 17:17

    Claudio Costa ha pubblicato su queste pagine uno studio sul water footprint, l’impronta idrica dell’agricoltura, proprio pochi giorni fa. Ho l’impressione che l’articolo del Guardian (che non è nuovo a banalità del genere) non tenga conto della distinzione su cui si basa l’analisi di Claudio, cioè fra consumo e utilizzo di acqua. Secondo un certo modo di vedere, la minaccia più grande per un piccolo agricoltore è quella di scoprirsi, un giorno, un po’ meno piccolo e un po’ più ricco…

    In ogni caso inoltrerò il tuo commento e il link a Pierre, che non parla italiano.

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  1. Local food: a fad that won’t last | Disarming the greens

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