L’autosufficienza alimentare non è garanzia di sviluppo sostenibile
A differenza della sicurezza alimentare, che punta ad assicurare un regolare accesso a prodotti alimentari sani, nutrienti, a prezzi abbordabili ed in quantità sufficiente, la sovranità alimentare rappresenterebbe il diritto dei popoli a definire le proprie politiche agricole al fine di garantire la loro autosufficienza. Le principali misure adottate dai suoi sosenitori consistono nell’erigere barriere al commercio e nell’orientare le produzioni verso la comunità locale.
Questa agricoltura di prossimità porterebbe con sé importanti benefici ambientali, economici e nel campo della sicurezza alimentare. Non più soggetti alla logica esclusiva del profitto, i piccoli agricoltori potrebbero vivere delle loro attività, proteggere le popolazioni vicine dai capricci del commercio mondiale senza sfruttare eccessivamente l’ambiente naturale. Sarebbe possibile diminuire le emissioni di gas a effetto serra riducendo le distanze percorse dal cibo. Molteplici produzioni di piccole dimensioni garantirebbero maggiore biodiversità rispetto alle grandi monocolture. Nella realtà, però, la sovranità alimentare non fa che aggravare i problemi che i suoi sostenitori dicono di voler combattere.
Una maggiore insicurezza alimentare
Qualunque sia la loro natura, tutti i prodotti agricoli sono periodicamente colpiti da grandinate, siccità, gelate, piogge eccessive, alluvioni, trombe d’aria, uragani o tornado. A questi problemi climatici vanno aggiunti i parassiti, le malattie delle piante e degli animali legate a funghi, batteri e virus, e altre calamità che vanno dai terremoti agli incendi.
Storicamente, i commerci interregionali hanno permesso di ripartire i rischi insiti nella produzione agricola, con i surplus di alcune regioni che coprono i cattivi raccolti di altre, prevenendo in questo modo un aumento troppo rapido dei prezzi nelle regioni in difficoltà. Paradossalmente, la sovranità alimentare comporta dei rischi molto più elevati, collocando praticamente tutte le uova all’interno dello stesso paniere geografico.
Impoverimento delle popolazioni locali
Sebbene anche altri fattori entrino in gioco, la specializzazione regionale nelle produzioni agricole è dovuta principalmente a significativi vantaggi regionali rappresentati dalla qualità del suolo e del clima. Promuovere il consumo di aprodotti locali non competitivi, implica inevitabilmente maggiori investimenti (acqua, fertilizzanti, pesticidi, serre riscaldate) e maggiori superfici agricole impiegate, il che si traduce in prezzi al consumo molto più elevati. Il guadagno economico dell’agricoltore non è competitivo se raggiunto a spese dei consumatori che devono pagare di più per un prodotto simile o lo stesso prezzo per uno di qualità inferiore. Facendo così, i consumatori hanno meno denaro per acquistare altre cose (inclusi altri tipi di produzioni locali) con effetti negativi sulla creazione di posti di lavoro al di fuori del settore agricolo.
I produtori locali competitivi beneficiano per parte loro di un mercato più ampio essenzialmente in due modi. In primo luogo, un buon numero di consumatori più lontani sono disposti a pagare di più per le loro produzioni. Inoltre, il fatto che i periodi di raccolta variano tra regioni distanti l’una dall’altra impedisce il rapido deprezzamento del prezzo di vendita che inevitabilmente accompagna la messa sul mercato simultanea e strettamente locale di uno stesso prodotto da parte di molti produttori. Se pure, in queste circostanze, i consumatori locali dovessero pagare di più durante il raccolto locale, godrebbero durante il resto dell’anno di una maggiore accesibilità dello stesso prodotto a prezzi abbordabili.
Il danno ambientale
Le grandi monocolture sono spesso accusate di ridurre la biodiversità. Eppure, alla prova dei fatti, concentrando la produzione nei territori più vocati e migliorando costantemente le rese, l’agricoltura moderna ha permesso, nel corso degli ultimi due secoli, la riforestazione su larga scala dei terreni marginali abbandonati dai loro proprietari. Questo è particolarmente evidente in Francia dove, nonostante la crescita economica e demografica significativa, la copertura forestale è in espansione dal 1830. Essendo meno produttiva, l’agricoltura di prossimità richiede maggiori superfici e maggiori investimenti, ed è quindi meno sostenibile.
L’argomento secondo il quale un maggiore ricorso alla produzione locale comporterebbe una riduzione delle emissioni di gas a effetto serra non è da prendere neanche in considerazione, in quanto tutti gli studi seri dimostrano che i segmenti legati alla produzione del cibo (semina, raccolta, stoccaggio, trasformazione) hanno un impatto molto pù significativo rispetto alla fase del trasporto. Ad esempio negli Stati Uniti uno studio suggerisce che solo il 4% delle emissioni complessive di gas serra associate al cibo proviene dai mezzi di trasporto su lunghe distanze, mentre l’83% è legato alla produzione degli alimenti. Produrre il più possibile nelle zone più vocate permetterebbe dunque, malgrado le maggiori distanze percorse, di ridurre i gas serra in maniera molto più significativa rispetto all’agricoltura di prossimità. Il prezzo dei generi alimentari, benché imperfetto in ragione dei molti fattori che incoraggiano l’inefficienza (sussidi, quote, tariffe) rendono un idea generalmente molto più precisa dell’impatto ambientale delle produzioni agricole rispetto al loro luogo d’origine, in quanto tiene conto di tutti i costi di produzione. Qualsiasi discussione seria a proposito della riduzione dei gas serra nel settore agricolo dovrebbe concentrarsi in primo luogo sull’eliminazione delle barriere commerciali.
Lungi dall’essere benefiche, la sovranità alimentare e l’agricoltura di prossimità sono al contrario all’origine di maggiori danni ambientali, dell’impoverimento delle popolazioni locali e di una sicurezza negli approvvigionamenti ben minore di quella assicurata dalla liberalizzazione del mercato agricolo.
(Questo articolo, che Pierre ci ha gentilmente concesso di tradurre per la Valle, è la sintesi di un paper di ricerca per l’Institut Economique Molinari redatto con Hiroko Shimizu)
Trackbacks