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Agricoltura, trasporti e biodiversità: la nuova frontiera del protezionismo commerciale

26 novembre 2010

Chicago Blog – 26/11/2010

Alcuni commenti al mio ultimo post su Chicago Blog mi inducono a tornare su un argomento, quello dell’agricoltura di prossimità e della sovranità alimentare, intorno al quale mi sembra che circolino molti luoghi comuni e ben radicati. In particolare un lettore scriveva che è giusto sostenere l’agricoltura locale, o nazionale, per alcune ragioni:

  1. perchè è buona e salutare e va tutelata per la salute di tutti (anche la vostra)
  2. perchè si aiuta la produzione italiana, e tutti i paesi proteggono la propria produzione (anche la Germania che va tanto di moda solo perchè spende un po meno degli altri)
  3. perchè l’ortofrutta non è un prodotto normale, portarla in giro per il mondo ne sminuisce la qualità
  4. la biodiversità è un patrimonio inestimabile della umanità, purtroppo certe cose non hanno prezzo ed il mercato non funziona per loro

Mi sembra evidente che i primi due punti tendano ad annullarsi a vicenda: la nostra produzione è migliore (non solo più buona, addirittura più salutare!) di quella proveniente da altri paesi, ed è giusto tutelarla, ma se lo fanno, per la stessa ragione, anche altri paesi (il lettore cita la Germania, non avendo chiaro che la politica agricola è europea), è chiaro che qualcuno la sta sparando grossa: o noi, o i tedeschi, o più probabilmente tutti e due. Come se un attore in tournée, presentandosi sul palcoscenico di Parma, esordisse dicendo: “siete un pubblico fantastico, il più bel pubblico che abbia mai incontrato, come dicevo proprio ieri a Reggio Emilia…”

La realtà è, ovviamente, diversa. Nessuna regione può vantarsi di avere una produzione migliore, fatta solo di eccellenze. Avrà ottimi prodotti di un tipo, e pessimi prodotti di un altro tipo, e questo grazie alle caratteristiche del terreno e del clima. Se una regione pretende di soddisfare il proprio fabbisogno alimentare esclusivamente con prodotti provenienti dal suo territorio non tutela affatto la salute dei propri cittadini. Tutela soltanto (è più chiaro al punto 2 citato dal nostro lettore) i produttori locali. Anzi, è più corretto dire che “tenta” di tutelarli, ma in realtà sono proprio loro a venire danneggiati nel medio e lungo periodo, in quanto si impone loro di lavorare esclusivamente per un mercato ristretto, mentre potrebbero fare affari migliori puntando sui prodotti “vocati” del proprio territorio e aprendosi a mercati più ampi.

Tentare di produrrre i prodotti sbagliati vicino casa rende meno e costa di più: ci vorranno più fertilizzanti, più acqua, più fitofarmaci, e soprattutto più terra: Pierre Desrochers e Hiroko Shimizu citavano, in un loro recente articolo, il caso delle fragole: un ettaro in California ne produce 50 tonnellate, mentre la stessa superficie in Ontario non ne rende più di 10. Quindi se in Ontario volessero produrre una quantità “californiana” di fragole, dovrebbero procurarsi, probabilmente strappandola ad ecosistemi come le praterie o le foreste, una superficie agricola cinque volte superiore a quella di cui oggi dispongono.

E questa considerazione ci porta direttamente agli altri due punti citati dal nostro lettore, quello della qualità dei prodotti che vengono da lontano, e, più in generale, ai problemi legati al trasporto su lunghe distanze, e quello della biodiversità, espressione alla quale, prima di attribuire un valore (“patrimonio inestimabile dell’umanità”), bisognerebbe cercare di attribuire un significato.

Oggi le merci non vengono più trasportate da una parte all’altra del mondo con i clippers a vela, anche se già i trasporti via clipper permettevano ai molini inglesi di panificare con il grano australiano. Se è vero che i prodotti ortofrutticoli tendono a perdere qualità se non vengono consumati freschi, è altrettanto vero che la qualità di un prodotto ortofrutticolo fuori stagione è minore di quella di un prodotto di stagione: quindi importare, nel periodo invernale, frutta proveniente dall’emisfero australe, e mandare laggiù la nostra frutta nella bella stagione, significa che i consumatori (di tutto il mondo) si troveranno nel piatto i prodotti migliori al prezzo migliore.

La biodiversità è un concetto che va molto di moda negli ultimi tempi, ma presumo che non tutti coloro che ne parlano con tanta facilità non sarebbero in grado di chiarirne il significato. Innanzitutto, dato che parliamo di agricoltura, sarebbe opportuno specificare se ci si riferisce alla biodiversità o alla biodiversità agricola: sono due cose diverse, spesso la salvaguardia di una contribuisce all’impoverimento dell’altra, ma nessuna delle due viene danneggiata dall’intensificazione agricola e dall’efficienza produttiva.

Per biodiversità si intende la varietà di specie, animali o vegetali, che abitano un dato ecosistema. Chiaramente lo sviluppo dell’agricoltura tende a impoverirla, dato che sostituisce ecosistemi complessi con superfici su cui cresce solo una varietà vegetale. Ma, come spiegato prima, consumare solo prodotti provenienti da territori vicini significa doversi procurare più terra coltivabile: l’agricoltura intensiva è meno dannosa per la biodiversità rispetto all’agricoltura di prossimità, tanto in voga tra gli ambientalisti.

La biodiversità agricola invece è la varietà di specie, animali e vegetali, che coltiviamo o alleviamo per soddisfare il nostro fabbisogno di cibo, e qui il discorso si fa più complesso. Tutte le varietà che coltiviamo sono il frutto di una selezione genetica operata dall’uomo nel corso di millenni. Per questo la biodiversità agricola è in costante evoluzione, adattandosi in ogni epoca ai bisogni dell’umanità. Ma questo non significa che oggi sia meno ricca che in passato: se a Pachino oggi si può coltivare il celebre pomodorino a grappolo non lo si deve alla faticosa opera di recupero di antiche varietà da parte degli agricoltori locali, ma al lavoro di una multinazionale biotech israeliana che ha “inventato” quel tipo di pianta, individuando poi nel territorio della Sicilia sudorientale il territorio ideale per la sua coltivazione. Altrimenti anche lì, come ovunque, coltiverebbero ancora pomodori insalatari a buccia spessa.

Il caso di Pachino dimostra proprio come la ricerca dell’efficienza (la varietà giusta coltivata nella zona giusta) possa arricchire sia la biodiversità agricola che le tasche degli agricoltori, venendo incontro ai bisogni del mercato prima che a quelli dei eurocrati agricoli.

C’è un’altro aspetto che viene spesso citato in difesa dell’agricoltura di prossimità: i trasporti su lunga distanza, si dice, sarebbero all’origine dell’emissione di grandi quantità di CO2 che potremmo risparmiare consumando cibo prodotto più vicino a noi. Questa considerazione è però completamente sbagliata, perché prescinde dal fatto che l’energia impiegata nel trasporto su lunghe distanze è venti volte inferiore a quella impiegata per le fasi della produzione. Quindi si risparmia molta più energia, e di conseguenza si produce meno CO2, producendo fragole in California, per usare l’esempio precedente, e trasportandole in Ontario, piuttosto che pretendendo di fare tutto vicino casa. Se si volesse discutere seriamente dell’abbattimento delle emissioni legate alla produzione di cibo, il primo passo dovrebbe essere la rimozione di qualsiasi tipo di barriera commerciale.

Per approfondire questo tema consiglio vivamente il paper dal titolo “Yes We Have No Bananas: A Critique of the ‘Food Miles’ Perspective” di Pierre Desrochers e Hiroko Shimizu, per Mercatus Center at George Mason University.

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2 commenti leave one →
  1. rocco permalink
    27 novembre 2010 20:23

    Ovviamente prendere i 4 punti di un anonimo e magari poco informato lettore fa comodo per propinare le proprie tesi sui vantaggi di un’agricoltura di mercato. Indubbiamente l’agricoltura di mercato ha dei vantaggi, come tutto ciò che dipende dalla libera concorrenza tende a ottimizzare l’impiego di risorse e razionalizzare i sistemi di produzione e trasporto. E basta, non è poco ma finisce qui.
    Andiamo per punti:
    1) la produzione locale è buona e salutare perché i prodotti vengono colti ad un maggior grado di maturazione e, una volta comprati durano di più e sono più buoni. Non si tratta di varietà migliori o peggiori, si tratta, a parità di varietà di avere un prodotto più fresco in tavola. Oltretutto vuol dire che il prodotto comprato dura di più e c’è meno scarto, meno produzione di rifiuti domestici. Sulla critica al primo punto per me hai torto. Le fragole della California sono tante, magari quelle dell’Ontario sono poche, ma più buone, soprattutto se uno le mangia in Ontario. La frutta al Supermercato e tendenzialmente più caro e di peggiore qualità rispetto al fruttivendolo di fiducia e via via fino al produttore. E’ una regola che chi fa spesa conosce. Io faccio spesa e non sto a contare le tonnellate di CO2 prodotte, che sono una vaccata, una vaccata di una certa importanza.
    2)Le sovvenzioni. Anche i grandi produttori sono sovvenzionati, godono di regimi oligopolistici e insomma chi lo sa cosa succederebbe se si creasse un vero mercato libero per l’agricoltura, magari non funziona nulla, conosciamo solo la teoria e poco la pratica.
    3)Si allaccia al punto 1. Roba più fresca è sinonimo di roba più buona e più durevole. Fai spesa una volta per tutta la settimana e c’è minore scarto.
    4)Concordo che la biodiversità in agricoltura è una bestia strana. Nel senso che è governata dall’uomo che non è certo estraneo ai processi naturali, ne fa parte e quindi, insomma è tutto un grande processo. Ci sono varietà di prodotti che sono difficilmente inseribili in un’economia di mercato, per immagine (bellezza), trasportabilità, gusto dominante nei trend culinari, etc. E’ comunque il mercato, una fetta ristretta, di nicchia, che chiede di poter consumare varietà rare.

    C’è una grande fetta di mercato che vuole consumare fragole anche d’inverno. Siete mai stati in Spagna dove producono fragole e pomodori tutto l’anno per esportarli in tutta europa a prezzi competitivi? Vicino ad Almeria c’è una regione completamente coperta di serre, che munge acqua in una zona semi-desertica e ha letteralmente devastato il paesaggio. Non credo sia necessario consumare pomodori freschi e fragole anche d’inverno. Non è necessario coltivare asparagi in pianura padana. Abbiamo comunque in Italia zone di produzione. Ogni specie ha una sua zona dove cresce meglio. Ci sono eccezioni, ci sono varietà che si adattano bene a molti climi e terreni, etc. per questo esiste la biodiversità e per questo io non mangio tutti i giorni Tapioca, Mango, Albero del Pane, etc. e neppure krauti e wurstel.

    La CO2. Già… Che brutta bestia, queto gas fertilizzante. La CO2 ha la capacità di aumentare la biomassa perché fertilizza. Se poi abbiamo paura di finire sott’acqua per l’innalzamento degli oceani o di finire arrosto fra 100 anni allora è un altro paio di maniche.

    In ultimo il territorio. Secondo quanto detto ci sono zone vocate all’agricoltura intensiva e altre no. Anche il territorio ha una sua valenza. Il caso di Almeria è significativo. Ma può darsi che una zona semidesertica non sia molto importante. Però mi sembra altrettanto significativo evitare che la pianura padana diventi una distesa di capannoni, cemento, centri commerciali e periferie villettate. La’gricoltura può essere un modo per arginare questo trend, a mio avviso disastroso. Dissi la mia. A voi.

  2. 28 novembre 2010 00:18

    Mi unisco alla discussione, parzialmente. Il punto centrale del pezzo penso che sia che lo stato deve lasciare il piu’ possibile gli agricoltori liberi di scegliere cosa produrre, non sovvenzionando, sia con detassazioni o sussidi diretti, certe produzioni rispetto ad altre. Se poi i consumatori dell’Ontario preferiscono spendere di piu’ per avere fragole piu’ fresche e buone, perche’ coltivate dietro casa, allora ci sara’ sempre qualche agricoltore che, al giusto prezzo, le coltivera’ anche in Ontario.
    Il tema delle fragole californiane e’ buono; io le ho prese due volte, una per sbaglio e l’altra perche’ avevo troppa voglia di fragole e c’erano sono quelle. Ma quelle del Kent sono decisamente migliori (vivo a Londra).
    Ritornando al punto. Alla base stanno la decisione dei consumatori, che non sono orientate solo dal prezzo, ma anche dalla qualita’ e dai valori. Se decido di comprare Fiat perche’ e’ italiana anche se spendo di piu’ e la qualita’ e’ inferiore, non e’ che sono stupido, sono semplicemente orientato dai miei valori. Ai produttori sta intercettare quanto il prezzo, la qualita’ e i valori sono fattori importanti nelle scelte dei consumatori.

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