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Valori pubblici vs diritti di proprietà: gli olivi toscani

1 dicembre 2010

Nell’ambito della discussione a proposito dei cosiddetti “valori pubblici” alla remunerazione dei quali dovrebbe essere indirizzata la nuova PAC arriva, con tutta l’aria di rimanere inascoltata, quest’intervista al prof. Franco Scaramuzzi, presidente dell’Accademia dei Georgofili. Si parla di olivicoltura tradizionale e del divieto di espianto degli olivi, ma è uno spunto che può essere applicato a molte realtà.

L’agricoltura, e quindi anche l’olivicoltura, non è solo ambiente e paesaggio ma è, prima di tutto, produzione. L’agricoltura è sempre stata multifunzionale, ha sempre avuto il merito di proteggere il territorio e le sue risorse, ma senza perdere il suo principale connotato e scopo: produrre derrate alimentari. Questo accade anche il olivicoltura, traendo spunto da leggi del passato che avevano altra funzione e diversi obiettivi. Il divieto di espianto degli olivi serviva a proteggere l’investimento, non tutelare il paesaggio.

E il risultato è che oggi ci si ritrova costretti a coltivare impianti che non sono più produttivi, e che non possono essere espiantati:

Si trovano a gestire impianti vecchi e poco razionali. I costi di produzione dell’olivicoltura “paesaggistica” sono molto alti. In media, in Toscana, se il prezzo dell’olio scende sotto i 6-7 euro/Kg l’olivicoltore ci rimette. Intorno a questa cifra i margini di guadagno sono comunque modestissimi. Questo perchè è imposto di coltivare oliveti che, dal punto di vista economico ed agronomico, non avrebbero più ragione di esistere. Pur di conservarli così accettiamo che questi oliveti vengano mantenuti in condizioni precarie, con potature approssimative, così come concimazioni e anche, recentemente, difesa fitosanitaria. Tutto pur di abbattere i costi. Mettiamoci però nei panni dell’olivicoltore che si trova a gestire un’attività in perdita perchè considerata di interesse pubblico. Se è davvero di interesse pubblico perchè questi terreni non vengono espropriati? Non è anti democratico costringere qualcuno a mantenere attiva un’attività in perdita?

La tentazione che si diffonde in questi casi tra gli addetti ai lavori è quella di sempre, cioè finire per accettare interventi compensativi, tendenzialmente a carico della PAC, che garantiscano il paesaggio (e chi dalla sua tutela trae profitto) senza restituire nulla alla competitività delle imprese. Per fortuna Scaramuzzi sembra avere le idee abbastanza chiare:

Nelle zone montane del nord, gli agricoltori che gestiscono i masi in alta quota vengono remunerati dagli enti locali e dai privati (alberghi, commercianti ecc) per mantenere i pascoli verdi. Altrimenti, la coltivazione in quota dei foraggi, l’allevamento sarebbero attività antieconomiche. In piccole realtà, con la condivisione e la compartecipazione della società, è una soluzione praticabile ma in olivicoltura, considerando le estensioni coinvolte, le somme sarebbero enormi, senza considerare le difficoltà relative alla stima dell’indennità e alla burocrazia necessaria per l’erogazione di questi aiuti e relativi controlli. Se si vuole salvare l’olivicoltura italiana bisogna ripensare all’obbligatorietà della coltura.

E’ proprio qui la questione, chi paga? Se non c’è chi è in grado di pagare il giusto, cioè la differenza tra una perdita e un guadagno, bisogna restituire alle imprese il loro sacrosanto diritto di inseguire il profitto e la competitività, e non barattare la loro libertà con quattro spiccioli. Se ne parlava proprio ieri mattina sulla bacheca facebook di Alessia, agguerita allevatrice toscana:

Remunerare gli agricoltori come guardiani del paesaggio non è una soluzione ma non è neanche giusto che a me, allevatore, venga imposto di costruire una stalla a forma di L , gialla e con tegole vere, in trincea e corredata da silos verdi, tutto per tutelare il paesaggio, facendo costare il tutto 3 volte quanto costerebbe la stessa stalla fatta lineare, coperta di ondulite e con i silos bianchi. Se ad Asciano non possiamo ruspare neanche le frane in nome del paesaggio qualcuno deve pur ripagarci di questo danno economico perpetrato ai danni degli agricoltori .

E’ vero, ma secondo me bisogna proprio cambiare l’approccio al problema: il paesaggio agrario è il prodotto di ogni epoca e delle sue economie, e non deve essere nella disponibilità di nessuna autorità pubblica, altrimenti accettiamo il principio che non siamo più padroni a casa nostra e che, in cambio di qualche compensazione sul cui ammontare non avremo nessuna voce in capitolo, potranno indirizzare il nostro lavoro come più gli piace.

Saranno gli albergatori toscani, e chiunque tragga un beneficio economico dal mantenimento di certi standard estetici, a doversi proporre per pagare la differenza tra il costo di una stalla e quello di un monumento a futura memoria, se lo ritengono uno scambio vantaggioso, e dovrebbe essere l’allevatore a fare il prezzo, e a decidere se alla fine la cosa va bene anche a lui. Se poi la regione vorrà contribuire a finanziare una spesa del genere, sarà  un suo problema giustificare di fronte ai contribuenti che i loro soldi servono a pagare le tegole in cotto delle stalle.

Sarebbe ora che ci si riappropriasse appieno dei diritti di proprietà, e di ricominciare ad attribuire i giusti prezzi e valori alle cose, anche a quelle che vengono nascoste dietro il dito della definizione, completamente arbitraria, di “inestimabile”. Io ho sempre sognato di essere il proprietario di quel famoso boschetto di cipressi vicino San Quirico d’Orcia, quello che sta in tutte le cartoline, per potere andare ogni anno alla regione e chiedergli: “quest’anno quanto mi date, se non lo taglio?”

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