Molto meglio brevettato che certificato
Leggevo alcuni giorni fa qualcosa a proposito della polemica che si è scatenata a causa della soppressione dell’obbligo di utilizzare semente certificata di grano duro per accedere al premio supplementare del cosiddetto “articolo 68”. La polemica è abbastanza sterile, mi pare, dato che l’incentivo era già deboluccio di suo, ma ci sono un paio di considerazioni che mi sono venute in mente.
La prima: è davvero buffo un mondo in cui è normale polemizzare contro gli OGM in quanto il loro uso “obbligherebbe” gli agricoltori, per restare competitivi, a riacquistare ogni anno i semi, ponendosi in una condizione di dipendenza dalle multinazionali che ne detengono i brevetti, ma allo stesso tempo si incentivano gli agricoltori ad acquistare seme certificato (l’incentivo passa come misura agroambientale!), quando non si proibisce espressamente loro di fare altrimenti.
La legge 1096 del 1971, infatti, stabilisce all’art. 12 che non possono essere venduti, posti in vendita o messi altrimenti in commercio i prodotti sementieri se non ufficialmente certificati, mentre l’art. 1 del dpr 1065/1973 fa rientrare nel concetto di commercializzazione anche l’eventuale attività svolta da cooperative o associazioni anche se al solo scopo della distribuzione ai propri associati.
Quindi per quelle varietà, come i cereali a paglia e molte foraggere, in cui la selezione genetica non è così spinta come nel mais e che potrebbero garantire rese adeguate anche in caso di riutilizzo del seme (opportunamente conciato) del raccolto precedente, ci hanno pensato le autorità pubbliche a difendendere gli interessi delle aziende sementiere, e a spese degli agricoltori, che devono per forza acquistare seme che abbia superato il vaglio (e chi come me ha seminato in qualche occasione grano duro di prima riproduzione sa come funzionano queste cose…) dell’ENSE, il carrozzone l’ente di Stato preposto alla certificazione dei semi).
La seconda considerazione mi sorge alla lettura delle parole di fuoco usate dai rappresentanti di Assosementi alla notizia dell’eliminazione dell’incentivo all’uso di semente certificata di grano duro. Per esempio in un comunicato di febbraio si legge:
Con questa decisione si sconfessa la politica di qualità sviluppata negli ultimi vent’anni dal Ministero (…) Senza i proventi che derivano dalla vendite di seme certificato si condanna a morte il miglioramento genetico in un settore strategico per molte Regioni del centro-sud.
Mentre più recentemente il presidente Marco Nardi:
Diciamo intanto cosa abbiamo guadagnato con la ricerca e il miglioramento varietale in questi anni: 1 q/ha ogni cinque anni dal 1900 ad oggi, con il grano duro. E oggi la forma principale di finanziamento e sostentamento della ricerca e dell’innovazione varietale è proprio la vendita di seme certificato. La ricerca e l’innovazione a loro volta sono gli strumenti che consentono alla produzione agricola di venire incontro alle esigenze dell’industria di trasformazione e del consumatore e quindi di restare competitiva
Fa sempre bene Nardi a ricordare i progressi ottenuti dalla ricerca genetica e dal miglioramento varietale ma, domando scusa, che accidente c’entra la certificazione pubblica con questi progressi? O forse dobbiamo credere che la green revolution sia stata una conquista dell’ENSE? Proprio Assosementi ci fornisce una tabella in cui si vede l’andamento dell’uso di seme certificato di grano duro dal 1985 ad oggi:
ANNO DI
RACCOLTA |
USO SEME
CERTIFICATO (%) |
1985 | 30 |
1990 | 32 |
1995 | 75 |
2000 | 100 |
2001 | 100 |
2002 | 100 |
2003 | 100 |
2004 | 100 |
2005 | 100 |
2006 | 100 |
2007 | 100 |
2008 | 100 |
2009 | 90 |
Ora, se i dati sono reali, e non ho motivo di dubitarlo, quel che risulta più evidente è che l’uso di grano duro certificato si è generalizzato solo dalla seconda metà degli anni ’90, proprio in corrispondenza degli obblighi della PAC (dagli anni 90′ in poi se vuoi il contributo PAC devi conservare il cartellino di ogni singolo sacco di semente acquistata), e a quanto mi risulta i passi da gigante che il miglioramento varietale hanno fatto fare alle produzioni di grano duro sono avvenuti abbondantemente prima di quella data.
Anzi, mi viene spontaneo pensare che sia stata la competizione volta a soddisfare le esigenze di agricoltori liberi di orientare le loro scelte altrove ad incrementare, come dice Nardi, la produzione di grano duro di 1 quintale per ettaro ogni 5 anni dal 1900 a oggi. E mi viene altrettanto spontaneo pensare che non sia solo una coincidenza la tendenziale stagnazione (quando non si tratta di una vera e propria diminuzione) delle rese di grano duro dell’ultimo decennio, che chiunque di noi ha potuto sperimentare direttamente in campo, proprio in corrispondenza con il periodo in cui le aziende sementiere hanno potuto beneficiare più che mai di introiti garantiti per legge e non frutto del successo del loro lavoro tra gli agricoltori.
Se di libertà si vuole parlare, sarebbe il caso che agli agricoltori venisse lasciata quella di orientare le proprie scelte produttive come meglio credono, senza che nessuno pretenda di mettere sotto tutela il loro lavoro. Dovrebbero poter liberamente acquistare e coltivare mais OGM brevettato, se lo ritengono opportuno, o seminare grano duro del raccolto precedente, se non sono soddisfatti dei prodotti offerti loro dai sementieri e del loro prezzo. E dovrebbero essere liberi anche di acquistare e vendere materiale da seme tra di loro, senza dover necessariamente pagare il pizzo alle autorità pubbliche.
In fondo, credo che sia molto meglio un prodotto brevettato, cioè un prodotto innovativo a cui lo sviluppatore ha messo sotto tutela le potenzialità di guadagno in cambio della completa pubblicità delle modalità di produzione (vorrei sempre ricordare a chi se la prende con brevetti e royalties che l’unica alternativa è il segreto industriale), rispetto a un prodotto certificato, cioè dichiarato “buono” da un ‘autorità pubblica anche e soprattutto quando non ha più nulla da offrire al mercato.
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