Il capitalismo ecologico
I discorsi degli ambientalisti tendono a presentare le azioni degli esseri umani come fondamentalmente estranee alla natura, e quindi nocive per essa. Per una frangia più radicale l’esistenza stessa degli esseri umani, benché siano anch’essi un prodotto dell’evoluzione naturale, è da considerarsi benigna almeno come un cancro.
Questa visione di una natura il cui delicato equilibrio è continuamente minacciato dalla cupidigia umana è molto più antica di quanto non si creda. Nel suo trattato De anima pubblicato più di 1800 anni fa, in un’epoca in cui la popolazione mondiale era all’incirca trenta volte meno numerosa di quanto non sia oggi, il teologo Tertulliano nota con orrore che gli esseri umani sono “un fardello per il mondo, gli elementi sono appena sufficienti per noi, questo lamento è in ogni bocca, la natura ci verrà a mancare”. Per fortuna, aggiunge, “le pestilenze, le carestie, le guerre, le voragini che ingoiano le città” agiscono “come un rimedio”.
Come hanno spiegato i ricercatori Hans von Storch e Nico Sterh, ben prima che il cosiddetto “consensus” mettesse sotto accusa l’uso del carbone, del petrolio e del gas naturale come causa dei cambiamenti climatici, i periodi di riscaldamento e raffreddamento degli ultimi secoli sono stati sempre attribuiti a diverse cause, tutte senza fondamento, come la stregoneria, la deforestazione, l’invenzione del parafulmine e più tardi del telegrafo senza fili, i colpi di cannone sparati durante la prima guerra mondiale e in seguito gli esperimenti nucleari.
Ma non dite agli attivisti verdi che l’assenza di riscaldamento per oltre un decennio potrebbe suggerire l’eventualità che le nostre modeste emissioni di gas serra potrebbero aggiungersi presto a questa lista! Il verdetto è già stato emesso e gli uomini devono espiare i loro peccati. D’altronde come potremmo essere sempre di più e più ricchi senza avere agito a discapito dei nostri ecosistemi?
Per paradossale che possa sembrare, è però assolutamente possibile aumentare il numero e il tenore di vita degli esseri umani riducendo al tempo stesso il loro impatto ambientale. La chiave per spiegare questo paradosso è molto semplice: una popolazione più numerosa e più prospera non è fatta solo di nuove bocche da sfamare, ma anche di nuovi cervelli e geni creativi, nonché di maggiori risorse per creare nuove tecnologie. In un contesto di economia di mercato, gli esseri umani non sono soltanto degli “sfruttatori” della natura, ma anche dei “creatori” di risorse attarverso le quali le loro azioni, benché questo non fosse il loro obiettivo principale, hanno generalmente degli effetti benefici per l’ambiente.
Per esempio, lo sviluppo del gas naturale e dell’idroelettrico ha indotto un considerevole calo della domanda di carbone e legna da ardere, riducendo così la pressione sulle foreste e migliorando significativamente la qualità dell’aria nelle città. Inoltre, la ricerca del profitto costringe costantementi dirigenti e tecnici a fare di più e meglio per ridurre il consumo di risorse, oltre a vendere o a riutilizzare i loro scarti di produzione, anziché disperderli nell’ambiente.
Chi si ricorda oggi che la benzina, non più di un secolo fa, altro non era se non un prodotto di scarto del cherosene (raffinato dal petrolio), del quale nessuno sapeva cosa fare? O che l’invenzione di automobili e autocarri ha drasticamente ridotto la quantità di terreni agricoli necessari a produrre alimenti per i cavalli, la cui diffusione era essa stessa una fonte di inquinamento e di malattie?
Non è stata la regolamentazione né l’attivismo ambientalista che ha permesso di migliorare la qualità del nostro ambiente negli ultimi decenni, ma piuttosto un processo insito nell’economia di mercato, che porta innovazioni ogni giorno più efficienti e un utilizzo ogni giorno più economico delle risorse. Quando potremo finalmente riconoscere che anche la mano invisibile del mercato ha il pollice verde?
Secondo me sottovaluta il fatto che nei secoli passati l’industrializzazione ha riguardato zone piuttosto circoscritte della terra (l’Europa occidentale e gli Stati Uniti prima, il Giappone e l’Unione Sovietica poi), e che ora si sta espandendo a numerose altre aree del globo. Quando l’intera Asia e l’Africa saranno industrializzate ai livelli che abbiamo toccato noi nella seconda metà del novecento sarà davvero sostenibile questo sviluppo?
Per quanto i toni di certi movimenti ambientalisti siano catastrofici, e per quanto esistano e siano esistiti in passato cicli di riscaldamento e raffreddamento globale che poco hanno a che fare con l’uomo, mi pare che l’incisività dell’uomo moderno su tali processi di mutamento sia centinaia di volte superiore a quello dei suoi antenati dei secoli passati. E non si tratta solo del numero di uomini presenti sulla Terra, quanto dell’accrescimento dell’inquinamento che ognuno di noi (membri di società consumistiche) produce.
Credo che l’uomo occidentale debba operare una scelta (sempre che possa davvero scegliere) fra l’egoistico mantenimento di questo modello di sviluppo esponenziale nel solo occidente, impedendo la sua espansione ad altri contesti, o una decisa frenata, una presa di coscienza della finitezza delle sue ambizioni di onnipotenza. La terza strada potrebbe essere un vicolo cieco. Infine un appunto sulla speranza riposta nell’innovazione e nell’ingegno dell’uomo. Può essere che il treno della crescita, lasciato andare senza freni di sorta possa produrre delle rotaie più confortevoli, e una stazione d’arrivo prospera e sicura. Ma non possiamo averne la certezza. Confidare in questo è un salto nel vuoto, e una responsabilità che non abbiamo il diritto di prenderci, perché è in gioco la vita di generazioni future che non hanno voce in capitolo.
“Quando potremo finalmente riconoscere che anche la mano invisibile del mercato ha il pollice verde?”
Quando si potrà dimostrare con i fatti e non con le opinioni.
@Mattia: se non ci sono abbastanza fatti di fronte al nostro naso… Ed altrettanti fatti che dimostrano come siano proprio le regolamentazioni a produrre effetti negativi.
Voglio dire, e qui rispondo anche a Imagopovi (devo dire che Pierre Desrochers, che mi ha autorizzato gentilmente a tradurre questo intervento per La Valle del Siele, vive in Canada e non parla italiano, quindi dubito che parteciperà direttamente al dibattito), che il primo, e ovvio, effetto delle regolamentazioni è quello di conservare lo status quo. Non potrebbe essere altrimenti, dato che non si può regolamentare ciò che ancora non esiste.
Questo avrebbe effetti positivi se fosse vero l’assunto che il progresso, il mercato e l’innovazione tecnologica siano intrinsecamente distruttivi per l’ambiente, e quindi un presente imperfetto sarebbe preferibile ad un futuro disastroso. Ma non è così.
Il ragionamento di Pierre mi sembra abbastanza chiaro: perseguire l’efficienza, che è alla base del profitto, significa anche ridurre i costi, e spendere meno significa prima di tutto consumare meno. Per questo, e parlo della mia esperienza di agricoltore, ma è un discorso che si può estendere ad ogni fonte energetica, per molte colture è preferibile usare l’irrigazione a goccia piuttosto che ad aspersione o a scorrimento, e questo non perché chi usa questo tipo di impianti ha necessariamente a cuore l’ambiente, ma perché si può risparmiare significativamente sul costo dell’acqua. Ma questo è possibile perché il progresso tecnologico in quel campo è venuto incontro alle esigenze di profitto degli agricoltori (e delle imprese che producono impianti di irrigazione innovativi), non alle richieste di qualche governo attento e sensibile alle problematiche ambientali. Un governo, di fronte ad un’emergenza idrica, avrebbe potuto soltanto imporre dei turni per l’irrigazione, mortificando le potenzialità produttive delle imprese senza modificare di nulla la situazione. Conservazione dello status quo, appunto.
Per rispondere a Giordano.
“Questo avrebbe effetti positivi se fosse vero l’assunto che il progresso, il mercato e l’innovazione tecnologica siano intrinsecamente distruttivi per l’ambiente, e quindi un presente imperfetto sarebbe preferibile ad un futuro disastroso.”
Sono d’accordo, il mercato non è necessariamente distruttivo. L’innovazione tecnologica men che meno. E tuttavia un mercato non regolato ha portato all’inquinamento di centinaia di fiumi nell’ottocento, in Nord America come in Europa, e così sta succedendo oggi in Cina. La seconda ha portato nel 1986 al disastro di Cernobyl e a innumerevoli altri nel corso del novecento. Ha aperto anche la strada alla realizzazione di tecnologie per lo sfruttamento di energie pulite come l’eolica e la solare. Ma non sappiamo quante altre Cernobyl ci saranno, e di che portata.
Sostenere che “perseguire l’efficienza, che è alla base del profitto, significa anche ridurre i costi, e spendere meno significa prima di tutto consumare meno” sarebbe vero se il mercato favorisse l’utilizzo di energie pulite, mentre mi pare di vedere più macchine a benzina che macchine elettriche per strada. Probabilmente le Sette Sorelle (che, bisogna dirlo, non agiscono in un contesto di mercato concorrenziale e a cui la mano invisibile non si applica) trovano il petrolio più efficente, anche se meno salubre.
Un altro esempio, per restare in ambito agricolo (il quale, seppure non strettamente legato all’inquinamento, trovo essere lo specchio di una reltà in cui il mercato e l’etica non sempre coincidono), è quello dei semi-suicida brevettati dalla Monsanto, che provocano una dipendenza dell’agricoltore dall’azienda e una distorsione del mercato (è giusto brevettare gli organismi?) non provocata dagli stati, se non indirettamente. Un’altra azienda, la Monsanto, che smentisce le fantasie Smithiane su una Mano Invisibile che forse è legata e impossibilitata ad agire, ma che di fatto esula da qualsiasi discussione voglia riferirsi alla realtà odierna dominata dalle Corporations. Certo gli incentivi statali provocano perdite secche e il profitto ne risente, e tuttavia le esternalità negative sull’ambiente credo vadano tamponate, per lo meno in quei settori dove l’efficienza significa ancora inquinamento. Delle regolamentazioni mirate, intelligenti, questo sì.
@imagopovi. Scusa, ma il gene suicida (o terminator) prodotto dalla Monsanto non esiste e non è mai esistito. Si tratta di una bufala generata dalla malafede di qualcuno o dall’ignoranza su cosa sia un ibrido. Alcune varietà sono ibride, cioè per farla breve le loro caratteristiche si perdono dopo la prima riproduzione, ma per essere ibride non c’è bisogno che siano geneticamente modificate. Chiunque semina mais semina ibridi. Altre varietà non lo sono, e i semi potrebbero essere conservati per il raccolto successivo (salvo che non lo fa nessuno da settant’anni per i costi legati alla conservazione, alla concia e al trattamento delle sementi). Dato che Monsanto è titolare di un brevetto, chiede agli agricoltori che seminano soia OGM Monsanto (che non è un ibrido) con il seme autoprodotto l’anno precedente il pagamento di una royalty. Credo che sia nel suo diritto, ma avverrebbe anche se la varietà in questione non fosse OGM. Si può poi discutere a lungo sui brevetti, ma sempre ricordando che un prodotto brevettato è un prodotto innovativo a cui lo sviluppatore ha messo sotto tutela le potenzialità di guadagno (per un periodo limitato) in cambio della completa pubblicità delle modalità di produzione, e che l’unica alternativa a brevetti e royalties è il segreto industriale.
Anche se poi la dipendenza da un prodotto la dà soltanto la soddisfazione di chi lo usa: se non mi piace il mais Monsanto l’anno dopo ne semino un altro, dov’è il problema? Dov’è la dipendenza?
Ma hai fatto bene a citare la questione della possibilità di utilizzare per la semina il prodotto dell’anno precedente: non tutti sanno che la legge italiana vieta espressamente di commercializzare sementi che non siano certificate dall’ENSE (carrozzone pubblico, non multinazionale privata), che tra le forme di commercializzazione vietate c’è anche quello dell’impiego tra i soci di una cooperativa, e che se vuoi accedere a una parte dei sussidi della PAC non lo puoi neanche riutilizzare per te. Ne parlavo proprio qualche giorno fa qui: https://lavalledelsiele.com/2010/12/18/meglio-meglio-brevettato-che-certificato/ . Fa più danni lo Stato o la Monsanto?
Per quel che riguarda invece le energie rinnovabili, non sono competitive ora, ma non è detto che non lo siano in futuro. Quel che è certo però è che i sussidi alle rinnovabili inefficienti (fotovoltaico ed eolico) disincentivano le aziende ad investire nell’innovazione e in nuove tecnologie, dato che le autorità pubbliche garantiscono loro buone entrate anche con i prodotti attuali, e a spese del contribuente. Siamo sempre lì: l’intervento pubblico agisce sullo status quo, ed è sempre conservativo.
Hans Von Storch è ben lontano dall’affermare che l’uomo non sia la causa piu probabile dell’attuale riuscaldamento. Basta andare a leggere le sue dichiarazioni ufficiali piu recenti:
http://www.nature.com/nature/journal/v463/n7277/full/463025a.html
E questo è un estratto della sua dichiarazione all’inchiesta parlamentare inglese sul presunto “climategate” in cui si lascia andare si a delle critiche, ma non certo a una negazione della causa antropica al problema dei cambiamenti climatici:
“this debate sometimes goes so far as to question a key result of climate science: that the climate system has unequivocally warmed over the past century and most of the recent warming is very likely caused by human activity” (Von Storch)
L’ironia sulle cause del riscaldamento nasconde una scarsa (se non assoluta) conoscenza dell’argomento da un punto di vista scientific da parte dell”autore. Basta leggere la frase sulle “modeste” emissioni di gas serra per capirlo. L’autore, oltre che controllare meglio le fonti cercando di capire cosa davvero dicono sull’argomento, dovrebbe un attimo ripassare il ciclo del carbonio e qualche nozione di base di chimica e fisica…poi magari riprovarci, andrà sicuramente meglio…
@Giordano.
Sostieni che “i semi potrebbero essere conservati per il raccolto successivo (salvo che non lo fa nessuno da settant’anni per i costi legati alla conservazione, alla concia e al trattamento delle sementi)”. Questo potrà essere vero per gli agricoltori dei paesi del Nord del mondo, ma per i contadini poveri del Sud, ad esempio africani o di alcune zone dell’India, i semi della Monsanto (ma anche di altre Corporations) sono molto costosi e constringono tali contadini ad indebitarsi. Inoltre impediscono lo sviluppo di aziende agricole indipendenti.
Ti cito un articolo tratto dal manifesto [1]:
“D’altra parte i contadini hanno solo due possibilità per accedere ai semi: conservarli di anno in anno e scambiarli localmente; oppure, dipendere dalle varietà ‘migliorate’ e certificate del mercato, che però sono molto costose e li obbligano spesso a indebitarsi. Il risultato di una simile sproporzione di forze è che i diritti di proprietà intellettuale – in altre parole i brevetti su piante e sementi – si traducono in un trasferimento di risorse dal Sud al Nord e dai contadini all’agribusiness. Per dirla con le misurate parole di De Schutter: “Il regime di proprietà intellettuale non funziona per i produttori poveri del Sud”.
Olivier De Schutter è “relatore speciale delle Nazioni Unite per il diritto all’alimentazione” e “autore di un recente rapporto sulle politiche delle sementi e il diritto al cibo”, che puoi trovare qui: http://www2.ohchr.org/english/issues/food/annual.htm.
Ho letto diversi altri articoli riguardo a queste realtà, per questo, pur possedendo nozioni molto limitate in agricoltura, mi stupisce la tua affermazione che “il gene suicida (o terminator) prodotto dalla Monsanto non esiste e non è mai esistito. Si tratta di una bufala generata dalla malafede di qualcuno” e che “i semi potrebbero essere conservati per il raccolto successivo”.
Potresti fornirmi delle fonti che provino le tue affermazioni (non dico che siano false, tuttavia ho letto diversi articoli di giornali e riviste autorevoli che le smentiscono)?
Per quanto riguarda gli incentivi pubblici, essi portano inefficienza, siamo d’accordo, ma non disincentivano ad investire in tecnologie che senza tali incentivi sarebbero comunque ancora troppo inefficienti per giustificare un investimento, soprattutto per le piccole e medie imprese che costituiscono l’asse portante dell’imprenditoria italiana.
1) http://www.visionpost.it/nexteconomy/semi-brevettati-danno-per-i-contadini.htm
@imagopovi
quello che sta avvenendo oggi in molti paesi in via di sviluppo è esattamente quello che è successo da noi decenni fa: è il passaggio da un’agricoltura di sussistenza ad una agricoltura moderna, e se gli agricoltori di quei paesi preferiscono indebitarsi (o semplicemente spendere di più alla semina) per trarre maggior profitto al raccolto, evidentemente conviene loro, e non credo che abbiano bisogno di qualche autorità paternalistica che si occupi delle loro scelte, o di qualche saggio suggeritore come l’autrice dell’articolo del Manifesto, soprattutto quando scrive beneficiando a piene mai dei progressi che invece vorrebbe negare loro.
Che poi dell’articolo del Manifesto mi sfugge davvero il senso: si parla di trasferimento di ricchezza dai paesi poveri a quelli ricchi attraverso il pagamento delle royalties (non avviene ovunque: per es. l’India non riconosce valore legale ai brevetti). Ma questo ragionamento prescinde da un dato di fatto talmente ovvio che non andrebbe neanche menzionato: quei semi costano di più ma garantiscono agli agricoltori profitti maggiori, quindi i soldi che investono ritornano loro con gli interessi. Oppure pensiamo che l’export agroalimentare brasiliano cresciuto del 300% negli ultimi 10 anni sia frutto del caso?
Gli OGM funzionano nei paesi in via di sviluppo proprio perché in molti casi permettono agli agricoltori di non dover sopportare altri costi per loro insostenibili: guardiamo di nuovo all’India, che grazie al cotone BT è diventato il primo produttore di cotone mondiale, nonostante un sistema agricolo basato sulla piccolissima dimensione aziendale: poter contare su una varietà di cotone che non ha bisogno di trattamenti antiparassitari (o alla quale ne servono molti meno) significa che un agricoltore può risparmiare sui costi degli antiparassitari stessi e soprattutto sulle costose attrezzature per la loro distribuzione. In questo modo il suo prodotto è (generalmente) più competitivo e la sua attività (generalmente) più florida.
Sembra sempre che se vengono ammessi gli OGM gli agricoltori vengono costretti ad acquistarli, manco avessero la pistola alla tempia… Un prodotto in più significa soltanto un opzione in più da poter liberamente scegliere. Che vuol dire che gli agricoltori sono costretti a indebitarsi? Chi li obbliga, se non la loro libertà di scelta? Possono sempre tornare a fare come prima, o acquistare sementi convenzionali. Se poi non lo fanno li vogliamo obbligare, a questo punto si, con la forza, sottraendo loro un opportunità e obbligandoli a tornare all’autoproduzione e all’autoconsumo? E’ questa la ricetta che il nostro occidente equo e solidale ha in serbo per i paesi in via di sviluppo?
I prodotti di quei paesi sono sempre più concorrenziali rispetto ai nostri. Questo è il nostro problema. E la filosofia che si nasconde dietro all’articolo del Manifesto è sempre la stessa: si chiama protezionismo. Impediamo loro di essere produttivi e competitivi, così ci salviamo il culo noi. Altro che trasferimento di ricchezza dal sud al nord. Qui c’è il nord che tenta disperatamente di impedire al sud di crescere.
Quanto alla questione del gene terminator, ho commesso un errore: è stato sviluppato a livello sperimentale ma non è stato mai messo in commercio da nessuno. La storia più completa è qui: http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/09/06/ogm-terminator/57194/
Ti ringrazio per l’articolo del Fatto. A questo punto mi domando di chi ci si possa più fidare, dato che divesi articoli che ho letto sul Manifesto, sull’Internazionale e su altri giornali e riviste davano per certa la diffusione dei semi “terminator”. Mi chiedo se fossero in malafede o semplicemente poco informati. Nel secondo caso sarebbe forse anche peggio.
Per quanto riguarda il protezionismo mi trovi perfettamente d’accordo: i piani di aggiustamento strutturale imposti in passato ai paesi in via di sviluppo dall’IMF e dalla Banca Mondiale hanno costretto i governi di questi paesi la cancellazione dei dazi, quando al tempo stesso i paesi ricchi occidentali li mantenevano a protezione dei propri produttori, e tuttora li mantengono. E tuttavia le multinazionali come la Monsanto, che attraverso le economie di scala possono permettersi di vendere i propri prodotti in quegli stessi paesi a prezzi fuori mercato, contribuiscono, credo, a rendere difficile il sorgere e lo svilupparsi di aziende agricole locali competitive.
Comunque complimenti per il blog e per la serietà degli autori, spesso ho visto discussioni del genere degenerare nel turpiloquio e negli attacchi personali. Continuerò a seguirvi.