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Fiat non è Alitalia. Per fortuna

19 gennaio 2011

Sarà forse un controsenso, ma ho l’impressione che tra gli operai di Mirafiori quelli che hanno subito un pesante ricatto siano stati quelli che hanno votato no. Non il ricatto di Marchionne, che aveva minacciato di emigrare altrove con baracca e burattini se la sua proposta fosse stata respinta, ma il ricatto che deriva dalla desolante ma fondata consapevolezza che l’Italia è un mondo a parte, nel quale nulla funziona né mai funzionerà come altrove.

Un mondo in cui è necessario, per la propria sopravvivenza, aggrapparsi con le unghie e con i denti a ciò che c’è, ora e subito, piuttosto che credere alle promesse, da qualsiasi parte arrivino, di un futuro migliore, in cui magari, anche grazie a un nuovo e più moderno modello di relazioni industriali, il posto di lavoro in fabbrica, in quella fabbrica, potrebbe essere una delle tante opportunità, e non necessariamente la migliore.

D’altronde, per quale ragione si dovrebbe credere che lo schema che ha funzionato tanto bene per Alitalia non dovrebbe funzionare, o continuare a funzionare, anche per Fiat? Tante ed ottime ragioni, ma valle a far capire a chi in questo gioco è parte in causa, carne e sangue. E’ credibile la Fiat che se ne va? Si può davvero credere che un governo che ha accollato sulle accondiscendenti spalle dei contribuenti il salvataggio del tricolore sui timoni degli aerei dell’Alitalia sarebbe stato davvero disposto a lasciar partire Marchionne senza colpo ferire? C’è qualcuno in grado di rispondere affermativamente e con sicurezza a una domanda del genere?

E allora, intanto che troviamo le parole giuste, non meravigliamoci troppo se qualcuno scommette sulla ripetizione dell’eterno presente all’italiana, piuttosto che su un ragionevole futuro. Perché, certo, Fiat avrebbe rischiato di continuare a perdere competitività e posizioni sul mercato, ma oggi Alitalia è forse competitiva? Eppure è lì, e non la tocca nessuno, almeno fin che dura.

Mi viene in mente un altro esempio, e un altro referendum, quello sull’acqua “libera” o “statalizzata”: anche in questo caso, c’è qualcuno che può giurare di fronte al consumatore perplesso che l’inevitabile, e forse salutare, aumento delle tariffe del servizio idrico sarà compensato da una proporzionale diminuzione della pressione fiscale, almeno nella misura in cui questa contribuisce al mantenimento delle inefficienze della gestione pubblica degli acquedotti? Se c’è qualcuno, magari tra i banchi del governo, in grado di giurarlo lo faccia, perché è sulla risposta convincente a questa semplice domanda che si giocherà il risultato della consultazione.

Luca Ricolfi, sulla Stampa di domenica, ricordava a chi oggi si gloria del risultato di Mirafiori che forse la politica avrebbe qualcosa da fare, e che non sta facendo: riduzione della pressione fiscale, riduzione degli oneri burocratici su imprese e cittadini, riduzione dei tempi dei processi, trasformazione, in due parole, dell’Italia in un posto in cui è possibile investire e fare impresa. Non meravigliamoci troppo se chi non ha visto cambiare di una virgola questo paese negli ultimi vent’anni non sia troppo disposto a credere che possa cambiare nei prossimi due o tre. D’altronde scommettere sull’assistenzialismo sarebbe qualcosa di più di un peccato veniale solo in un paese in cui scommettere su sé stessi sia un’opzione realmente praticabile per tutti.

I lavoratori che hanno votato sì al referendum di Mirafiori non meritano di essere lasciati soli proprio quando il risultato finale, raggiunto sul filo di lana, lascia ampi margini di manovra per chi oggi gioca, da diversissimi fronti, per l’impraticabilità dell’accordo e contro la sua estendibilità, e il modo migliore per dare senso e significato alla loro scelta coraggiosa, come scrive Ricolfi,

è che chi ha le redini del Paese si decida, finalmente, a fare le altre cose che vanno fatte. A partire da quelle che sono necessarie, assolutamente necessarie, se vogliamo aiutare chi lavora e chi produce a interrompere il declino del nostro Paese.

Se è vero, come ha ricordato Franco Debenedetti, che “le leggi stabiliscono diritti uguali per tutti e stabili nel tempo” mentre “i contratti servono per adattare gli interessi reciproci, tenendo conto delle circostanze” e quindi “sostenere che garantiscano diritti immodificabili è un controsenso”, è intollerabile lasciare che il quadro circostanziale nel quale le parti si trovano a negoziare sia sempre più quello di un paese in declino, nel quale i lavoratori possono solo accettare o rifiutare accordi al ribasso.

Qualcuno lo dica, a Sacconi, che c’è tanto da fare, prima di fare la ruota come il pavone di fronte a un risultato nel quale l’inazione riformatrice di questo governo ha giocato solo a favore dei no e della conservazione.

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