Inseguendo i prezzi del cibo
Paul Krugman torna sui prezzi delle materie prime agricole e, nonostante le polemiche scatenate su alcuni blog scettici sui temi dei cambiamenti climatici, mi sembra porre il problema nella giusta prospettiva:
Cosa c’è dietro l’impennata dei prezzi del cibo? L’attenzione si è concentrata verso i soliti sospetti: è tutta colpa della Fed, o è tutta colpa della speculazione. Ma io sono andato a guardare le stime dell’USDA sull’offerta e la domanda mondiale, e ciò che risalta dai dati è soprattutto che abbiamo avuto un enorme calo dei raccolti su scala mondiale.
Ecco alcune variazioni percentuali della produzione mondiale di cereali tra 2008/2009 e 2010/2011, secondo le stime USDA:
Nel complesso la produzione di cereali è bassa – ed è significativamente più bassa se si tiene conto di una popolazione mondiale in crescita.
Ci si potrebbe chiedere perché un deficit di produzione del 5 per cento porta ad un raddoppio dei prezzi. Parte della risposta è che alcuni tipi di domanda stanno crescendo più velocemente della popolazione – in particolare, la Cina sta diventando un importatore crescente di alimenti per soddisfare la domanda di carne. Ma il punto principale è che la domanda di cereali è molto anelastica rispetto al prezzo: sono necessari forti incrementi di prezzo per indurre le persone a consumare di meno.
L’USDA fornisce delle stime per l’elasticità dei prezzi. Per gli Stati Uniti, l’elasticità della domanda rispetto al prezzo di pane e cereali è 0,04 – il che vuol dire che sarebbe necessario un aumento di prezzo del 25 per cento per indurre un calo di appena l’1 per cento nei consumi.
La ragione delle polemiche scatenate da questo articolo sta nel fatto che Krugman, individuando (correttamente) in alcuni estremi metereologici di quest’anno la causa dei cali di produzione, non resiste alla tentazione di chiamare in causa i cambiamenti climatici, dando secondo alcuni l’impressione, a mio avviso esagerata, di voler passare da una caccia alle streghe all’altra, dalla speculazione al global warming.
Il fatto, e non dovrebbe essere una gran novità, è che il tempo, cambiamenti climatici o meno, influenza le rese agricole, through thick and thin. E che solo attraverso l’eliminazione di ogni ostacolo al libero commercio internazionale si può fare in modo che i cattivi raccolti di una regione possano essere compensati dai buoni raccolti delle altre zone del pianeta.
Come avevamo già fatto notare, se le frontiere russe fossero state chiuse ai cereali del resto del mondo, dopo la siccità e gli incendi della scorsa estate i consumatori russi avrebbero subito un’insostenibile impennata dei prezzi al consumo mentre i produttori del resto del mondo non avrebbero potuto approfittare dell’inevitabile incremento dei prezzi all’origine.
Incremento dei prezzi che non fa che incentivare gli agricoltori (di tutto il mondo) a produrre di più, colmando il gap che separa la domanda e l’offerta. D’altronde non c’è da stupirsi se con il mais a 12 euro al quintale, qualche anno fa, con un prezzo quindi che non era in grado di coprire, in Europa, neanche i costi di produzione, molti avevano semplicemente smesso di seminarlo.
Purtroppo non sembrano esserne convinti i governi europei, e c’è da scommettere che i rialzi dei prezzi costituiranno a breve l’alibi per nuove regolamentazioni dei mercati, che non faranno che aggravare il problema, as usual.