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Crisi alimentari e fenomenologia degli sprechi: la funzione del prezzo

7 marzo 2011

Libertiamo – 07/03/2011

L’Economist ha dedicato al problema del cibo una serie di interessanti articoli riuniti nello Special report on feeding the world. Tra i molti aspetti presi in considerazione, dalle ragioni dell’aumento dei prezzi delle materie prime alle biotecnologie, uno in particolare merita di essere segnalato, dato che è un aspetto che raramente viene tenuto nella dovuta considerazione: la quantità di cibo materialmente prodotto che non arriva mai nei piatti perché, per un motivo o per l’altro, viene persa o buttata. In una parola, lo spreco.

Non è una questione banale, dato che, se le cifre riportate dall’Economist sono attendibili – e non ho motivo di dubitare che lo siano – ogni anno tra il 30 e il 50 per cento di ciò che viene prodotto finisce nella spazzatura. Ma attenzione, qui non si parla solo dei nostri sprechi, della roba che noi sazi e schizzinosi occidentali buttiamo invece di consumare: nei paesi in via di sviluppo la percentuale di cibo sprecato è all’incirca la stessa, solo che viene persa in modo e per ragioni diverse.

Se in occidente si spreca vicino alla tavola, nei paesi meno sviluppati gli sprechi, che sarebbe più corretto definire “perdite”, avvengono vicino alla fattoria: cominciano direttamente sul campo, con le colture non adeguatamente protette dai parassiti, e continuano nelle fasi di stoccaggio e trasporto, nelle quali l’assenza di silos, magazzini, vie di comunicazione, mezzi di trasporto, refrigeratori e impianti di conservazione trasformazione adeguati gioca un ruolo fondamentale.

Tutte cose piuttosto costose da mettere in campo, e per le quali anche la FAO denuncia la propria sostanziale impotenza. Come sappiamo bene, l’unica cosa che può trattenerci dal buttare un prodotto, non esattamente fresco ma ancora commestibile, è il suo prezzo. Allo stesso modo, l’unica cosa che può indurre i produttori dei paesi in via di sviluppo a fare maggiore attenzione alla protezione delle colture e alla corretta  conservazione dei prodotti, e allo stesso modo può fornire loro capitali finora indisponibili da investire in questa direzione, è un prezzo delle materie prime agricole sufficientemente remunerativo.

Pretendere di intervenire dall’alto sui prezzi del cibo non risolve il problema, anzi lo aggrava: è come prendere farmaci per abbassare la febbre senza troppo curarsi dell’infezione. Il prezzo indica una scarsità nell’offerta e, oltre a indurre gli agricoltori a proteggere e incrementare la produzione, incentiva tutti gli operatori della filiera agroalimentare a ricercare una maggiore efficienza, riducendo in primis gli sprechi, dato che tutto ciò che non viene buttato può essere venduto e può essere fonte di guadagno.

Ed esattamente nella stessa maniera, dalle nostre parti, solo i prezzi potrebbero suggerire di prestare attenzione non solo e non tanto alla qualità (spesso solo nominale, benché certificata) del cibo che arriva nei nostri piatti o che finisce tra i rifiuti, quanto anche alla più banale e grossolana quantità.

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