Selezionatori o insaccatori? Quarta parte – La commercializzazione di nuove varietà
Bisogna premettere che secondo la legge in vigore il commercio delle sementi si può fare solo in confezioni ermeticamente chiuse e portanti un cartellino (o etichetta) del produttore e un cartellino (o etichetta) dell’ente certificatore. Queste sono di vari colori a seconda della categoria.
All’atto dell’iscrizione e del conferimento del COV, il costitutore automaticamente s’impegna al mantenimento in purezza della varietà (specie autogame) o alla conservazione dei parentali (piante allogame). Nel caso del grano, all’atto del deposito della domanda d’iscrizione il costitutore possiede un certo quantitativo di seme: un campione viene depositato per la caratterizzazione varietale d’iscrizione mentre il resto viene riseminato e depurato dalle piante segreganti in modo da assicurare all’agricoltore che sceglie la varietà e la valuta conveniente dopo la coltivazione, che negli anni successivi potrà riscontrare sempre le stesse caratteristiche e qualità.
Nel frattempo il costitutore aumenta la sua disponibilità di seme che verrà certificata dall’ente nazionale di certificazione (in Italia ENSE, in Francia SOC) come “seme di base” apponendovi un’etichetta bianca. Questo è un seme commerciabile e da parte del costitutore viene dato a organizzazioni di produttori che s’impegnano a riprodurre quel seme sotto controllo dell’ente certificatore per ricavarne una categoria di seme (detto impropriamente seme commerciale) che dopo i controlli a posteriori diverrà seme di prima moltiplicazione o “seme R1” e le cui confezioni porteranno, oltre a quello del produttore, un cartellino di colore azzurro.
Questo è il seme che secondo la normativa può essere utilizzato dagli agricoltori per produrre il proprio raccolto. Nel caso dei parentali dei futuri ibridi invece il costitutore li mantiene e se è il caso li migliora, ma in questo caso è normalmente il costitutore stesso che produce il seme, questo sarà ibrido e costituirà già il “seme R1” che sarà venduto agli agricoltori per le loro semine.
E’ evidente che i controlli dell’ente certificatore avvengono su tutte le coltivazioni di moltiplicazione messe in atto, e se i risultati non sono rispondenti alle caratteristiche del dossier d’iscrizione, il prodotto viene scartato e non può essere utilizzato come seme. Le partite accettate ritorneranno all’avente diritto, che può anche non essere il costitutore, assieme al certificato di avvenuto controllo per richiedere a all’ENSE i cartellini nella misura confacente al numero di confezioni che si produrranno.
Per di più le varie partite di semi divise in lotti devono essere sempre rintracciabili e quindi ogni figura professionale che viene in possesso del seme deve tenere un registro di carico e scarico, da mostrare ai responsabili della repressione frodi. La consegna dei cartellini determina il pagamento del diritto di certificazione.
A questo punto si deve riflettere su quali sono le differenze pratiche tra le varie categorie di seme. Per farlo bisogna riportarsi all’esempio ipotetico di quei 60 geni che sono rimasti allo stato eterozigote e sapere che questi di generazione in generazione segregano e generano dei tipi che deviano dalla varietà iniziale. Intervengono anche delle mutazioni naturali a cambiare i genotipi delle varietà. Ciò conduce di generazione in generazione alla cosiddetta “degenerazione” o “deriva genetica” che man mano modifica sia l’omogeneità che il valore agronomico o tecnologico della varietà.
Questo fenomeno è lento per le piante autogame come il frumento o la soia (infatti si possono riseminare per più tempo), mentre basta una anno per le varietà ibride che perdono subito la loro omogeneità: infatti per queste piante l’agricoltore si rifornisce di seme nuovo ogni anno, ma il pericolo di veder scadere la varietà, per aggiramento delle resistenze o rispetto ad altre varietà di più recente costituzione permane intatto. Per inciso questo è vero anche se la varietà fosse transgenica, quindi l’idea di voler verificare gli effetti a lungo termine di un transgene non ha senso in quanto è scientificamente impossibile farlo perché la varietà che lo contiene è abbandonata dopo un po’ di tempo e l’eventuale trasngene che si è trasferito su altre specie si trova in un contesto genetico diverso e quindi cambiando questo la verifica è impossibile in quanto non si hanno più i testimoni.
Senza parlare poi che di anno in anno il prodotto che si ricava da quella pianta, ad esempio la farina, è diversa perché prodotta da piante che sono un po’ più degenerate o che hanno subito qualche mutazione. Di conseguenza pur ammettendo l’ipotesi di riscontrare qualche effetto negativo non si può mai sapere se esso è dovuto al transgene o ad una mutazione intervenuta o ad una segregazione. L’obsolescenza di una varietà è data anche dal fatto che di anno in anno ne sorgono di migliori. Essa, se prima era resistente ad una malattia, perde parte di questa caratteristica per il fatto che il patogeno muta ed aggira la resistenza.
In Italia all’atto dell’entrata in vigore della Direttiva sementi si decise di sfruttare una deroga prevista che permetteva di aggiungere una successiva generazione: il “seme R2” riconoscibile dal cartellino ENSE di colore rosso. E’ evidente che più ci si allontana dalla generazione del seme che ha dato origine all’iscrizione la varietà degenera perché aumentano le ricombinazioni geniche negative, quindi si potrà far risparmiare l’agricoltore sul costo del seme, ma egli non ne ricava tutto il beneficio insito nella varietà ritenuta dagli organi esaminatori apportante vantaggi produttivi o tecnologici.
La motivazione per cui si è deciso di rendere operativo il seme R2 è stata quella secondo la quale l’agricoltura italiana non poteva accettare seme troppo caro, ma sotto sotto vi era anche la motivazione di favorire le molte ditte sementiere nazionali che nella costituzione varietale mancavano di elevata tecnologia e che mal riuscivano a mantenere gli standard di purezza prescritti. E’ evidente che un seme R1 ha caratteristiche di purezza varietale più elevate di un seme R2. Tutto ciò ha evidentemente sfavorito l’agricoltore italiano per due motivi:
- In quanto il risparmio sul seme non ha compensato la minor potenzialità produttiva.
- Ciò ha garantito la sopravvivenza di ditte che si limitavano a moltiplicare della R1 ed ad insaccare della R2 e non delle ditte che creavano le varietà con la loro ricerca.
In molti casi le varietà italiane, e qui si parla unicamente di cereali dato che per il resto delle specie di grande coltura non esistono ditte sementiere italiane, erano solo delle chimere perché nello spazio di uno o due anni sparivano in quanto non confermavano i dati di presentazione. Le ditte sementiere estere poi non hanno mai trovato collaborazioni aperte e fattive con corrispondenti italiani. Inoltre il diverso regime di categoria di sementi ha generato un “contrabbando” di sementi nel senso che molti agricoltori francesi ad esempio chiedevano il controllo del loro raccolto proveniente da R1 lo insaccavano e lo rivendevano in Italia, senza nessuna garanzia di germinabilità e purezza, con apposto il cartellino rosso della R2.
In questo modo non si infrangeva nessuna legge, ma il prodotto presentava tali e tanti difetti che spesso gli agricoltori hanno maturato un senso di sfiducia verso l’istituto della la certificazione del seme.