Povertà sostenibile: la grottesca risposta dell’ONU alle crisi alimentari
Libertiamo – 14/03/2011
E’ di pochi giorni fa la pubblicazione di un rapporto del Consiglio dell’ONU per i diritti umani (quello di cui fanno parte tra gli altri Libia, Cina, Cuba, Angola e Arabia Saudita) in cui si affronta il problema del diritto al cibo. Il tema è complesso e delicato, oltre che di stretta attualità, e andrebbe affrontato con un briciolo di serietà in più, dal momento che la pubblicazione del rapporto ha ispirato titoli di questo tenore
: “l’agroecologia su piccola scala potrebbe raddoppiare la produzione di cibo in 10 anni”.
Effettivamente nel rapporto, curato dal belga Olivier De Shutter, si ripropongono luoghi comuni tra i più triti e consumati, oltre che moralmente inaccettabili, a cominciare dalle premesse:
Il reinvestimento nel settore agricolo, innescato dalla crisi alimentare del 2008 dei prezzi, è essenziale per la concreta realizzazione del diritto al cibo. Tuttavia, in un contesto di crisi alimentare, ecologica ed energetica, il problema più urgente non è quanto, ma come.
Il che significa, tanto per cambiare, proporre brioches a chi invoca il pane.
Al centro del rapporto c’è la cosiddetta “agroecologia”, presentata non solo e non tanto come una pratica agronomica, quanto come l’applicazione della scienza ecologica allo studio, progettazione e gestione di agroecosistemi sostenibili. Il che è più che legittimo, per carità, basta chiamare le cose con il loro nome senza pretendere di farci credere che si stia parlando di affrontare i problemi legati alla mancanza di cibo e alla povertà.
Il problema non è tanto la presunta straordinaria produttività dell’agroecologia. Può essere produttiva, se mai lo sarà, e il rapporto finisce per spiegarlo abbastanza bene, solo nella misura in cui adeguate politiche pubbliche intervengano a coprire le inevitabili inefficienze e gli elevatissimi costi. Nulla di nuovo, alla fin fine: basta chiamare costi e inefficienze con il magico nome di “public good”, bene pubblico, e siamo a posto. Qui in Europa lo facciamo da quasi due decenni, con tragici risultati.
Attenzione, molti degli obbiettivi che tali politiche dovrebbero, secondo il rapporto, perseguire, sono più che condivisibili, come il miglioramento delle infrastrutture rurali, la ricerca, la diffusione delle conoscenze agronomiche e l’implementazione di forme di aggregazione tra produttori. Un po’ meno il sistema del “subsidy to sustainability”, cioè legare le politiche di spesa e l’erogazione di aiuti e sussidi ad investimenti “agroecologici” da parte dei produttori stessi o, come è più probabile dato che si parla di realtà molto povere, da parte delle istituzioni locali: il pericolo è che i governi locali possano usare questa leva per continuare a beneficiare, da parte delle istituzioni sovranazionali, di quegli aiuti che sono sempre serviti ai governi stessi per puntellare il loro sistema di potere, piuttosto che alle popolazioni per emanciparsi dalla povertà. Ed è un pericolo tutt’altro che latente, se consideriamo che la remunerazione dei “public goods” ambientali attraverso la PAC (Politica Agricola Comunitaria) è uno dei sistemi più efficaci, da parte della politica europea, per finanziare sé stessa.
Il tutto ovviamente a scapito dei produttori stessi, che al contrario in questa particolare congiuntura potrebbero approfittare dell’aumento dei prezzi delle materie prime agricole per incrementare la produzione ed acquisire così direttamente dal mercato, senza “vincoli di mandato”, le risorse e i capitali necessari per riorganizzare sistemi produttivi obsoleti, che di tutto avrebbero bisogno fuorché di essere tutelati. E che avrebbero bisogno di apertura verso i mercati globali, quelli che oggi reclamano un’offerta maggiore di generi alimentari, piuttosto che essere indirizzati verso compassionevoli e poco remunerativi “fair markets”.
Personalmente invece credo che, con i prezzi del cibo che hanno raggiunto il loro massimo storico, tutto ciò che può frenare o distrarre i produttori, le filiere agroalimentari e i mercati dal venire incontro, come farebbero spontaneamente, all’aumento della domanda globale sia un crimine contro l’umanità. Magari da porre all’attenzione del Consiglio dell’ONU per i diritti umani, qualora cominciasse a occuparsi di cose serie.
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