La ‘disunità d’Italia’ nel paesaggio rurale
Italia Unita? Italia divisa? Poche cose riescono a fotografare la storia profonda del nostro paese quanto il paesaggio agrario: l’evoluzione delle economie, dei sistemi e dei rapporti di produzione raccontata attraverso la forma delle case contadine, la loro disposizione nel paesaggio rurale, il rapporto tra campagne e centri abitati.
E dato che i 150 anni seguiti all’Unità hanno ibernato, senza produrre particolari innovazioni, le carateristiche di questo paesaggio (e anche su questo fatto, non proprio lusinghiero per l’immagine della nostra nazione, si potrebbe ragionare), l’Italia che possiamo osservare oggi dai finestrini di un treno non è molto dissimile, con le dovute e ovvie eccezioni, da quella di un secolo e mezzo fa (e se osserviamo ancora meglio, da quella del ‘500).
Al centro e al nord il paesaggio racconta l’evoluzione cinquecentesca da un sistema feudale ad uno sostanzialmente capitalistico, benché preindustriale: un rapporto molto stretto tra città e contadi (erano le élite cittadine ad investire nelle campagne, e le città si sono ingrandite e diffuse come un reticolo perfettamente integrato col territorio circostante), sistemazioni fondiarie frutto della ricerca della massima redditività dei terreni, le case contadine costruite direttamente sui fondi stessi.
Una strenua ricerca dell’ottimizzazione produttiva che costituisce un unicum in Europa, e che deriva non solo dall’intervento capitalistico, del padrone per capirsi, ma anche dalla creatività “imprenditoriale” dei coloni stessi: paesaggi come la piantata interfilare padana e l’introduzione di colture come la vite e l’olivo sui terreni marginali delle colline interne dell’Italia centrale furono tutti sistemi attraverso i quali i contadini integravano i loro redditi, mentre i capitali urbani si dedicavano alle bonifiche, ai livellamenti, alle nuove tecniche di lavorazione collinare a “rittochino”.
Ho tra le mani una bella pubblicazione del Touring Club Italiano della fine degli anni ’70, “Case contadine”, un dossier illustrato dalle straordinarie fotografie di Gianni Berengo Gardin. Si passa dalla casa della grande azienda capitalistica padana, generalmente a “corte”, per arrivare al casale isolato della mezzadria toscana e più in generale dell’Italia centrosettentrionale. La dimensione e la tipologia della casa dice molto dei rapporti di produzione, dell’estensione fondiaria, delle tecniche e delle pratiche agricole applicate, della vocazione al profitto o alla sussistenza.
Scendendo verso Sud le immagini di Berengo Gardin non raccontano più case, ma borghi. Il borgo rurale di concezione feudale ha costituito la struttura urbanistica prevalente del mezzogiorno, a scendere partendo dal Lazio e dall’Abruzzo, fino all’unità d’Italia e oltre: una capitale grande, leggendaria, ma soprattutto lontana e disinteressata, e tanti piccoli borghi nei quali i contadini tornavano a sera dopo aver lavorato i piccoli appezzamenti che spettavano loro. Una vocazione alla sussistenza e alla ricerca di protezione da parte dei contadini, alla rendita da parte dei grandi proprietari.
Un altro pianeta, più che un’altra nazione, rispetto a poche centinaia di chilometri più a nord. Un paesaggio in cui la disgregazione economica e territoriale ha lasciato intatta la struttura sostanzialmente medioevale, compresa la figura, protettiva ed essenziale, del cavaliere, trasformato col tempo in “brigante” fino alle sue assai meno cavalleresche declinazioni moderne. Un mondo che il processo unitario ha lasciato sostanzialmente intatto, nel bene e nel male, tanto al Nord quanto al Sud. E per fortuna che Cavour era divenuto celebre come ministro dell’agricoltura per la sua opera modernizzatrice nelle pianure piemontesi.
Un mondo che, passata la festa, ricomincerà a remare come sa fare e come ha sempre fatto, in due direzioni opposte. Alla faccia dei nuovi patetici apologeti del processo unitario, dal Benigni sanremese che riscrive un Gramsci filorisorgimentale, fino al Papa che ne rivendica per la Chiesa addirittura la paternità.
Puntuale e molto ben dipinta la differenziazione territoriale delle campagne e delle colture. Nel merito, oggi l’unità ognuno la vede e la valuta come crede ma indiscutibilmente rappresenta il fallmento secolare di intere classi dirigenti fino a quelle attuali e chissà se escluse quelle future.
altra differenza che balza subito agli occhi andando verso sud: la cura della terra. in Piemonte cià che non è coltivato (poco a dire il vero) è comunque curato, sono quasi assenti gli appezamenti incolti, trascurati o lasciati al gerbido. da Grosseto in giù è un disastro di incuria, sporcizia e inselvatichimento di campi e frutteti dismessi…. e fa male, oltre ad essere orribile alla vista e pericoloso per la salute del territorio…..