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I tempi delle vacche grasse

24 marzo 2011

Sono giustificati i timori dei produttori di latte di fronte alla scalata del gruppo di Collecchio da parte del gruppo concorrente francese Lactalis? I fornitori di Parmalat hanno realmente qualcosa da perdere?

Probabilmente sì, se si confrontano le prospettive future con i tempi d’oro di Callisto Tanzi, molto meno se si considera che quei tempi erano ormai finiti da tempo, che la strada di una gestione “multinazionale” del gruppo era stata già imboccata da Bondi, mentre i problemi strutturali di una filiera produttiva disgregata e inefficiente come quella del latte potrebbero essere compensati solo dalla presenza di un acquirente monopolista locale che operi in un regime di prezzi garantiti (e fuori mercato). Dal Sole24Ore di oggi:

Il Bondi ristrutturatore, a Parma, cambia radicalmente il modello gestionale. Una metamorfosi che si coglie bene nel rapporto con la filiera, che resta centrale in un mercato del lattiero-caseario negli ultimi anni stabile a 15 miliardi di euro di fatturato aggregato e in grado di produrre 106 milioni di quintali di latte (l’Italia è autosufficiente per il 70%, il 30% lo importiamo dall’estero). «Ai tempi di Tanzi, che nessuno rimpiange per il disastro che ha fatto con il crac del 2003 – dice Antonio Piva, presidente della Confagricoltura di Cremona -, c’era più collaborazione con il tessuto produttivo. Tanzi era un industriale che certo non si poneva il problema di fare ricchi i produttori. Però l’azienda acquistava un buon 60% del latte in Italia. Il resto all’estero. L’attuale gestione ha perlomeno ribaltato le proporzioni fra l’Italia, ormai minoritaria e non superiore al 40%, e l’estero. Il nocciolo duro italiano resta collegato alla Centrale del Latte di Roma, di cui Parmalat ha il 75% del capitale». La stima di Piva, che si muove nella provincia italiana con la più alta concentrazione di stalle (il 40% del latte è peraltro lombardo), fa tornare alla mente le parole del direttore delle operazioni dell’attuale Parmalat, Antonio Vanoli, che alla domanda di un analista «dove comperate il latte, in Italia o all’estero?», ha risposto che questa informazione era sotto vincolo di riservatezza.

Ciò che preoccupa di più, evidentemente, è il passaggio da un monopolista locale ad uno straniero, sul quale risulterebbe molto più difficile esercitare qualsiasi tipo di controllo politico e protezionistico.

Negli anni Novanta i grandi produttori di latte andavano a casa Tanzi il sabato pomeriggio, accolti nel salotto in rigoroso ordine geografico (prima i parmensi, quindi i piacentini, poi gli altri), e insieme al Cavalier Calisto fissavano il prezzo. Nei primi anni Duemila, mentre il carcinoma della diversificazione nel calcio e nel turismo e il virus della falsificazione dei conti si propagavano ogni giorno di più nel corpaccione di Parmalat, il clima era già cambiato: Collecchio, in perdurante crisi di liquidità, non pagava le fatture e i titolari delle stalle spesso citavano la società. «Adesso – aggiunge Bonazzi – il metodo di acquisto è cambiato: i funzionari di Parmalat praticano prezzi differenziati, a seconda del contenuto proteico e del grasso contenuto nel latte»

Quindi ad emergere anche in questa occasione è la cronica debolezza del sistema produttivo enormemente appesantito dai costi e dagli oneri burocratici legati alle infrastrutture e alla certificazione degli standard di sicurezza alimentare (inventati paradossalmente a protezione del sistema stesso) oltre che dal sistema delle quote di produzione che incentiva (anzi, sostanzialmente impone) la frammentazione, l’inefficienza e la conservazione dello status quo di fronte alla concorrenza di un mondo che sa, evidentemente, adeguarsi ai tempi.

Fino agli anni ’90 la concreta opportunità, promossa dalle associazioni di categoria e in qualche modo “garantita” dalla politica, di splafonare la quota assegnata costituiva un’ottima valvola di sfogo sia per i produttori che per i primi acquirenti: andrebbe sempre ricordato che è l’acquirente che opera da sostituto d’imposta per il tributo europeo dovuto dal produttore per il latte prodotto in eccesso, e quando questo questo passaggio veniva aggirato a guadagnarci erano un po’ tutti, compresa Parmalat, consorzi DOP e compagnia cantando. Ma oggi non è più così, e sono poche le alternative al prezzo pagato in Lombardia per il latte base, inferiore al costo di produzione.

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