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Cui prodest?

17 aprile 2011

Premessa necessaria: non sono un allevatore. Quindi non conosco in maniera troppo approfondita la giungla burocratica e normativa che circonda le stalle italiane, le consuetudini che aggirano le norme, gli interessi in gioco e via discorrendo. Faccio questa premessa per chiarire che quelle che seguono sono deduzioni che pongo in forma interrogativa, in cerca di risposte più che per cercare di darle, su una materia in cui invece sembra che alzare polveroni sia sempre la strada preferita dalle varie parti in causa.

Nei giorni scorsi avevamo raccontato delle indagini dei Carabinieri che hanno riscontrato nella (nelle?) anagrafe bovina italiana delle gravi irregolarità, in particolare venivano censiti capi con età assolutamente inverosimili (fino a 83 anni!) per giustificare, presumibilmente, un volume di latte superiore a quello effettivamente prodotto. Prima di noi ne aveva parlato il Fatto Quotidiano, e la cosa aveva irritato l’istituto responsabile di detta anagrafe.

Negli ultimi giorni i risultati di queste indagini sono state usate da alcuni allevatori per mettere in discussione l’intero impianto attraverso il quale sono state comminate le multe agli allevatori che hanno prodotto oltre la quota loro assegnata. Sostengono che se le cose stanno così, questo latte in eccesso non lo avrebbero prodotto loro, ma sarebbe venuto da chissà dove e qualcuno lo avrebbe fatto passare per italiano beneficiando così di un prezzo maggiore.

Domanda: ma che c’entra? Ognuno ha la sua quota, se qualcuno l’ha superata sta tutto in fattura, altrimenti non sarebbe stato neanche riscontrato lo splafonamento. Tra l’altro è l’acquirente del latte che avrebbe dovuto fare da sostituto d’imposta per il prelievo, procedura che all’epoca evidentemente è stata aggirata tra mille complicità, ma non credo che oggi si possa dar torto al presidente di Agea, Dario Fruscio, quando afferma che “Il prelievo è calcolato sulle dichiarazioni di commercializzazione di acquirenti e produttori basate esclusivamente su documenti fiscali (fatture)“.

Ho l’impressione che questa faccenda con le quote e gli splafonatori non c’entri una beneamata, a meno che la seconda parte della frase del presidente di AGEA, “le altre informazioni presenti nelle banche dati, come il numero di capi risultante nell’anagrafe zootecnica, sono utilizzate soltanto come elemento di riscontro della coerenza del quantitativo di latte prodotto e fatturato da ciascuna stalla in relazione ai capi presenti e idonei a produrre latte” non significhi anche che è sulla base di queste stime che sono state comminate le sanzioni.

Appare comunque sempre più evidente che l’intero sistema, attraverso il quale circolano grandi quantità di denaro tra sussidi e quant’altro, è in mano a gente a cui sarebbe rischioso affidare la custodia di una bicicletta, e se qualcuno oggi s’incazza ha più di una ragione. E la fretta con cui tutte e tre le confederazioni agricole si sono affrettate a gettare acqua sul fuoco e ad accorrere in difesa dell’ente erogatore pare del tutto fuori luogo. Oltretutto andrebbe ricordato che oggi a protestare contro l’intollerabile ottusità burocratica di AGEA (“le bovine di età superiore a dieci anni sono risultate poco più di 53mila, e non 300mila” – e allora?) sono quelli che stanno pagando, oltre a che quelli che si ostinano a non aderire ai piani di rateizzazione.

Allora, a chi avrebbe giovato aumentare l’età delle vacche? Ovvero a chi avrebbe giovato, o gioverebbe, che un quantitativo di latte molto superiore a quello realmente prodotto risultasse in qualche modo coerente con il numero di animali presenti negli allevamenti italiani? Sappiamo che il latte, in Europa, è una materia prima che può circolare liberamente: un cartone di latte può essere prodotto a Parma con latte proveniente dalla Francia o dalla Baviera, o viceversa. Quindi Parmalat, Granarolo o chiunque altro non avevano nessun tipo di interesse a fare illegalmente ciò che potevano e possono fare in tutta libertà.

Però non tutti possono acquistare liberamente il latte dove vogliono: i consorzi dei marchi DOP e IGP, quelli, per capirsi, che producono formaggi tipici, devono necessariamente acquistare la materia prima sul territorio, da vacche allevate e nutrite secondo un determinato disciplinare. Un latte quindi molto più costoso del latte base.

Può bastare? A me no. Qualcuno può aiutarci a fare chiarezza? Quel che è certo è che se è su queste basi che si basa la strategicità del settore, in funzione della quale si imporrebbe ai contrinuenti italiani di preservarne a spese loro l’italianità e la specificità, poveri noi.

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2 commenti leave one →
  1. Alberto Guidorzi permalink
    18 aprile 2011 09:12

    Giordano neppure io sono un allevatore, ma mi permetto fare una semplice osservazione da cittadino comune. Se non erro ci sono due categorie di produttori di latte penalizzati dalle quote di produzione: quelli che hanno splafonato e quelli che pur di essere in regola hanno comprato delle quote di produzione pagandole profumatamente. Ebbene i primi a scendere in piazza dovrebbero essere proprio questi, che, nel rispetto delle regole, hanno comprato delle quote che forse, se effettivamente ci fosse stata maggiore disponibilità di produzione, non avrebbero dovuto comprare
    Gli splafonatori avrebbero, al limite, dovuto andare in piazza dopo i primi in quanto loro le regole non le hanno rispettate. Solo che questi, purtroppo, hanno dei padrini politici, vale a dire la Lega Nord, che quindi si comporta ne più ne meno come altri politici, tanto aborriti dalla Lega, che tutelano chi non rispetta le regole al Sud.

  2. 21 aprile 2011 16:01

    Sì, ma gli “splafonatori” devono anche spiegarci come hanno fatto a farsi pagare i latte a prezzo di mercato. Non sapevano loro (e chi ha comprato il loro latte) che avevano raggiunto la quota assegnata?

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