Biodiversità, questa sconosciuta
Libertiamo – 26/04/2011
Il termine “biodiversità” è uno di quelli con i quali ci si riempie facilmente la bocca, negli ultimi tempi. Viene usato negli ambiti più disparati e nei contesti più impropri, cosa che induce a pensare che molti di coloro che ne parlano in realtà abbiano un’idea molto vaga e generica del significato di questa espressione. Questo porta inevitabilmente ad errori grossolani, dovuti principalmente al fatto che chi evoca, genericamente, misure a difesa della biodiversità, raramente si preoccupa di produrre dati ed elaborare confronti, ma preferisce ragionare in base a degli assiomi i quali il più delle volte si rivelano, per quanto popolari, totalmente privi di fondamento.
Il più diffuso di questi assiomi è quello secondo il quale l’agricoltura intensiva e orientata al profitto danneggerebbe la biodiversità. In questo caso il termine “biodiversità” avrebbe bisogno di una “disambiguazione”, come si usa dire su wikipedia: si parla di “biodiversità” o di “biodiversità agricola”? Sono due cose diverse, in alcuni casi la salvaguardia dell’una contribuisce all’impoverimento dell’altra, ma nessuna delle due viene danneggiata dall’intensificazione agricola e dall’efficienza produttiva.
Per “biodiversità” si intende la varietà biologica di tutte le forme viventi e dei loro ecosistemi. In un dato ecosistema la biodiversità è la varietà delle specie animali e vegetali che lo abitano. E’ chiaro che l’attività agricola impoverisce la biodiversità, dato che tende a sostituire ecosistemi complessi con ecosistemi nei quali l’azione umana favorisce la sopravvivenza di una data specie a danno delle altre. Ma, se diamo (come spero) per scontato che non possiamo rinunciare all’agricoltura per ricominciare a sfamarci con i frutti della vegetazione spontanea, dobbiamo osservare che la ricerca dell’efficienza produttiva, fatta essenzialmente di riduzione dei costi e di aumento della produttività unitaria di un ettaro di terreno, ha restituito all’ambiente naturale molti terreni marginali e poco adatti alla coltivazione: è un dato di fatto che in Europa la superficie coperta da foreste ha ricominciato ad aumentare solo nel ventesimo secolo, e questo nonostante la crescita economica e soprattutto demografica.
Per questa ragione, se è vero che l’agricoltura biologica favorisce la biodiversità di un campo coltivato, al tempo stesso impoverisce la biodiversità complessiva, perché per ottenere il cibo di cui abbiamo bisogno sarebbe necessario utilizzare molta più superficie. E lo stesso vale per l’agricoltura di prossimità: cercare di produrre tutto vicino a casa, per poter acquistare prodotti a km zero, ha un impatto negativo sulla biodiversità, in quanto ogni regione, per le caratteristiche specifiche del suo clima e dei suoi terreni, ha una vocazione maggiore a produrre determinati prodotti piuttosto che altri. Se in Ontario volessero coltivare fragole per evitare di farle venire dalla California dovrebbero destinare alla loro produzione una superficie 5 volte maggiore, sottraendola evidentemente agli ecosistemi naturali.
Per biodiversità agricola si intende invece la varietà delle specie che coltiviamo o alleviamo per soddisfare il nostro fabbisogno di cibo. E’ piuttosto evidente che il progresso nel miglioramento genetico, nel corso dei millenni, ha arricchito tale varietà e continua ad arricchirla. Tendiamo a temere le trasformazioni e a ritenere perduto per sempre ciò che viene superato dal progresso tecnologico, ignorando ciò che di buono il progresso ci ha portato. Per questa ragione, per banali ragioni di marketing, capita di vedere prodotti concepiti nei laboratori di moderne multinazionali spacciati per prodotti tipici ed esempi di una biodiversità da salvaguardare, come nel caso, piuttosto celebre, del pomodorino a grappolo coltivato nella zona di Pachino, nella Sicilia sudorientale. Ma qualcuno si ricorda la varietà di pomodori (e soprattutto lo spessore della loro buccia, in un epoca in cui la conservabilità di un prodotto era una delle caratteristiche più importanti) che potevamo reperire fino a qualche decennio fa?
Anche nel caso di varietà usate nelle coltivazioni intensive come il mais, vogliamo confrontare la quantità di opzioni presenti oggi sul mercato, tra le quali possono scegliere gli agricoltori di tutto il mondo, con quelle del passato? E se oggi si non si coltivano più alcune varietà che si coltivavano una volta, bisognerebbe ricordarsi che questo avviene per venire incontro alla domanda del mercato, ovvero alle esigenze dei consumatori di tutto il mondo. Come sempre, da quando abbiamo cominciato a coltivare la terra per sfamarci.
E poi, per finire, toglietemi una curiosità: quanta biodiversità c’è in un terreno agricolo, fertile e ben esposto, ma coperto di “ecosostenibili” pannelli fotovoltaici?
Sull’origine del pomodoro di Pachino (se é vero) :
http://www.corriere.it/cronache/10_settembre_06/pomodori-pachino-bressanini_fbd1d00a-b994-11df-90df-00144f02aabe.shtml
Non mi pare si tratti di biodiversità “naturale”.
@ Alberto
Del resto qualunque cosa sia coltivata in un sistema agrario non è “naturale” per definizione
Aggiungerei che spesso per mantenere le varietà inalterate nel tempo si ricorre alla clonazione, esempio classico è la vite.
Questo procedimento riduce la biodiversità o meglio limita il crearsi di nuovi incroci o mutazioni impedendo che si formino nuovi genotipi (-genotipi = – variabilità genetica = -biodiversità ) ma non mi pare nessuno si sia ancora scagliato contro i vari disciplinari DOC DOCG IGT… Senza contare che se riprendessimo la selezione dei vitigni potremmo magari selezionare varietà un po’ più tolleranti ai parassiti di quelle attuali, riducendo così i trattamenti fitosanitari necessari, con gran beneficio dell’ ambiente