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PAC, agricoltura e sussidi: nodi da affrontare e miti da sfatare.

2 Maggio 2011

Libertiamo – 02/05/2011

Man mano che si avvicina il 2013, termine per riformare la Politica Agricola Comunitaria, appaiono sempre più evidenti i nodi e le contraddizioni che finora si è preferito ignorare. Il primo, e forse più decisivo perché riguarda direttamente l’ammontare dei sussidi che ogni azienda agricola potrà ricevere, è quello della distribuzione delle risorse.

Oggi un agricoltore italiano riceve (mediamente) circa 300 euro per ettaro coltivato. Un suo collega greco ne percepisce 600 ed uno rumeno 40. Una bella sproporzione, dovuta soprattutto al fatto che il sussidio viene erogato sulla base della media dei premi PAC ricevuti nel triennio 2000/2002, quando ad esempio gran parte dei paesi dell’est europeo non facevano ancora parte dell’UE. Questo è un bel problema, dato che, non essendo un’opzione praticabile quella di aumentare il budget a disposizione della PAC, l’unica possibilità è togliere a qualcuno per dare a qualcun altro. Fette di torta più piccole, insomma, ma uguali (più o meno) per tutti.

Il problema è convincere gli agricoltori di quei paesi, come l’Italia, che sarebbero destinati a veder ridotti i loro introiti, e questo è il tasto dolente che si trovano a dover affrontare oggi i burocrati europei e le associazioni di categoria che stanno negoziando i caratteri della nuova politica. Ed è così che appaiono all’orizzonte idee che risulterebbero essere con ogni probabilità un rimedio peggiore del male. L’ultima in ordine di tempo (ce ne sono state altre anche più disastrose) è quella di porre un tetto massimo al sussidio che ogni singola azienda può ricevere, in modo da liberare quattrini per le aziende più piccole (e più numerose). Una sorta di “operazione Robin Hood”, insomma, in cui alle aziende agricole più grandi verrebbe fatto pagare il grosso di questa ricollocazione di risorse all’interno del continente.

Secondo gli ultimi dati della commissione europea, l’1,6% delle aziende agricole europee beneficia del 32% degli aiuti diretti totali (poco meno di 40 miliardi), mentre un gran numero di imprese (il 43,6% del totale) raccoglie premi inferiori a 500 euro annui, che sommati non arrivano al 2% del budget complessivo. Solo in Italia ci sono 210 beneficiari che nel 2009 hanno incassato some comprese tra 200 e 500mila euro, e 150 aziende che hanno ricevuto aiuti diretti per oltre 500mila euro, mentre il 42,4% degli agricoltori ha incassato appena il 3,3% dei fondi.

Ora, l’immagine che se ne ricava è suggestiva ma piuttosto fuorviante. Infatti questa è in realtà una fotografia di uno dei limiti maggiori dell’agricoltura europea, l’eccessiva parcellizzazione fondiaria e il nanismo cronico delle aziende: se il 43,6% delle imprese raccoglie premi inferiori ai 500 euro annui, questo significa che queste imprese hanno dimensioni assolutamente inadeguate, dell’ordine di uno o due ettari o anche meno. Probabilmente molte di queste non sono neanche vere aziende agricole, ma semplici appezzamenti di terra i cui proprietari hanno titolo per beneficiare del premio. Ci si potrebbe allora cominciare a chiedere quali vantaggi porti utilizzare una così ampia fetta del budget della PAC per sostenere imprese con pochi euro l’anno.

E’ vero che la casa reale britannica è uno dei maggiori beneficiari dei sussidi PAC, e questo è uno degli argomenti forti di chi sostiene che bisognerebbe mettere un tetto ai sussidi, ma è vero anche che l’accorpamento fondiario sarebbe uno degli obbiettivi dichiarati della PAC (anche se, come abbiamo già detto, è la stessa esistenza della PAC a favorire la conservazione dello status quo), e scoraggiare la crescita delle imprese non mi sembra la strada migliore per perseguirlo. Ed è anche facile supporre che le grandi rendite non avrebbero difficoltà ad aggirare il problema frazionando le loro proprietà (come tra l’altro è già successo negli Stati Uniti all’indomani di un provvedimento analogo)

Il problema è che una rendita è una rendita, sia che si tratti di 100 euro sia che si tratti di 100.000 euro, e, come scrisse James Bovard,

l’effetto principale delle politiche agricole è quello di costringere gli agricoltori a fare in maniera inefficiente ciò che farebbero in maniera più che efficiente senza sovvenzioni, di costringere i consumatori a pagare di più per il cibo, di far salire i prezzi dei terreni agricoli (decimando quindi la competitività degli agricoltori) e di sperperare inutilmente alcune decine di miliardi di dollari l’anno.

Un sistema realistico per reperire le risorse per riequilibrare gli aiuti diretti sarebbe quello di abolire il secondo ramo della PAC, quello degli scellerati “aiuti allo sviluppo”, ovvero di quella quota di fondi che vengono erogati alle imprese (ma non solo alle imprese, il grosso se lo pappano la politica e le istituzioni locali) sulla base della loro adesione a piani di sviluppo aziendale o territoriale e dell’adozione di pratiche agricole scarsamente produttive. Quei soldi, insomma, erogati per finanziare i cosiddetti “public goods” (valori pubblici) e sui quali la politica e le burocrazie corporative e sindacali fanno sentire maggiormente il peso della loro discrezionalità (e ai quali la politica e le burocrazie corporative e sindacali sono infatti più affezionate). Restituire libertà alle imprese dovrebbe essere il primo public good da perseguire e sarebbe un primo importante passo per far riacquistare competitività al settore.

Senza però dimenticare di dare un occhiata al libro di Brian Chamberlin “Farming and subsidies. Debunking the mythsfinalmente tradotto in italiano e a giorni in libreria per i tipi della Leonardo Facco Editore, in cui l’appassionato racconto di uno dei protagonisti della stagione delle liberalizzazioni neozelandesi e dell’abolizione di ogni tipo di protezione pubblica al settore agricolo di quel paese mostra chiaramente che dei sussidi si potrebbe fare facilmente a meno, e che i primi a vivere e a lavorare meglio sarebbero gli stessi agricoltori. Leggere per credere.

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One Comment leave one →
  1. 2 Maggio 2011 10:57

    MILLE GRAZIE!

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