Prodotti “morti dentro”
“Scienze della formazione”: che cos’è? Non lo so, e ignoro anche il percorso di studi necessari per arrivare a una cattedra del genere. Sicuramente però non sono necessari studi di carattere scientifico, anzi forse non è necessario proprio studiare, altrimenti Laura Marchetti, che a Foggia insegna appunto “scienza della formazione” non avrebbe mai potuto affermare una simile delirante collezione di scemenze, contenuta miracolosamente in una sola frase di due righe:
Il grano Terminator nasce da semi sterili destinati a morire una volta concluso il ciclo di maturazione, così da costringere gli agricoltori a riacquistarlo per l’anno successivo
Allora:
- Il grano geneticamente modificato non esiste in commercio.
- Il cosiddetto “gene Terminator” neanche.
- “nasce da semi sterili“. Miracolo!
- “destinati a morire una volta concluso il ciclo di maturazione“. Chi? Cosa? I semi da cui nasce la pianta? Ma non erano sterili? O i semi prodotti da una pianta nata da semi sterili? Semi morti?
- “costringere gli agricoltori a riacquistarlo per l’anno successivo“. Ah, vabbé…
E poi conclude:
La tecnologia degli Ogm vuole rifare il mondo, un’esigenza avvertita tanto dai produttori quanto dai consumatori che chiedono prodotti sempre più belli a vedersi, peccato che dentro siano morti.
Prodotti “morti” dentro… Ma di che accidente stiamo parlando?
L’articolo della Gazzetta del Mezzogiorno, dal titolo “L’allarme: teniamo alla larga dal Gargano il grano ogm” (quello che non esiste) da cui ho raccolto questa gustosa notizia, sostiene che
è il grano di «Frankenstein» lanciato sul mercato dalla multinazionale americana Monsanto ad aver aperto il tema inquietante dell’agricoltura sintetica, la tecnica che ha la meglio sulla scienza.
Ma qui sulla scienza sembrano essere in tanti ad aver avuto la meglio.
Giordano ti sei sbagliato insegna “scienza della disinformazione”
Ciò che racconta infatti è un MITO propagato estrapolando abusivamente la notizia di una domanda di brevetto depositata assieme da una società (Delta Pine Land) ed il Minsitero dell’agricoltura USA (USDA, quindi un ente pubblico) descrivente dei CONCETTI (non una metodologia) per produrre grani sterili.
La domanda non ha avuto seguito ed è decaduta.
I concetti quindi non sono mai diventati metodo e nessuna varietà è stata creata con queste caratteristiche.
Qui comunque vi è un equivoco di fondo e mi spiego:
Io prendo del materiale genetico (che può essere una varietà locale selezionata nel tempo con il contributo di tanti agricoltori e quindi libera di essere coltivata, riprodotta e riseminata) la seleziono e la miglioro, chiedo quindi ad un organismo pubblico di certificare che essa è una novità vegetale e che apporta benefici, prima non ottenibili, da chi la semina. Se ottengo questa certificazione mi è concesso di pretendere un emolumento da chi ne trae beneficio.
Cosa c’è di strano e di scandaloso? Nulla, in quanto io non mi sono appropriato della varietà locale, quella è ancora disponibile, e senza dover dare nulla a nessuno, per chi la vuol seminare, riprodurre e riseminare. Si è solo formata una scuola di pensiero che pretende che l’agricoltore semini la varietà migliorata frutto del mio lavoro senza riconoscermi la giusta mercede per il beneficio che gli apporto. Con quale fondamento si pretende un beneficio gratis? Io non impedisco agli agricoltori di continuare a fare agricoltura seminando quella specie, deve solo optare per la vecchia varietà locale che io ho lasciata intatta e nessuno glielo impedisce.
Mi si potrebbe dire ma la varietà locale non esiste più perchè nessuno ha continuato a riprodurla, ma questo non è colpa mia è solo dovuto al fatto che si è riconosciuto che quella varietà locale aveva perso totalmente di valore sementiero.
Non solo, ma fra 10 anni, se non richiederò il mantenimento del rinnovo del diritto, la mia varietà più produttiva diverrà di uso comune e quindi seminabile liberamente. Perchè i paldini degli agricoltori come quell’insegnate disinformante, non consigliano di seminare queste varietà divenute libere, gli agricoltori che accetteranno di seminare ciò godranno di un beneficio gratis, ma 10 anni dopo.
Mi sapete dire chi ho sfruttato?
Perché è molto comodo beneficiare della rendita del lavoro altrui, Alberto. L’idea che sia ingiusto pagare una royalty a chi si è accollato le spese dello sviluppo, della sperimentazione e di tutto l’iter autorizzativo di una tecnologia significa proprio questo: esproprio proletario. Tutto il resto è fuffa, o vere e proprie balle, come quelle che la Gazzetta del Mezzogiorno ha attribuito alla professoressa Marchetti, che tra l’altro è stata anche sottosegretario all’ambiente nel 2006, nel secondo governo Prodi, in quota Rifondazione Comunista.
povero “ambiente” in che mani rischia di capitare!!!
non è in mani migliori…
L’articolo della Gazzetta del Mezzogiorno è avvilente. Però non mi sembra tutto così semplice come Guidorzi scrive. Infatti almeno al Sud e per il grano duro gli agricoltori sono stati praticamente obbligati (pena la perdita del contributo comunitario) negli ultimi 15 anni ad acquistare grano cartellinato dai sementieri a prezzi non certo di mercato. Tuttavia non si è assistito ad alcun significativo incremento produttivo ne qualitativo delle varietà (la varietà Simeto era la più diffusa 20 anni fa e lo è anche ora). Da quando il vincolo è stato eliminato la vendita di grano cartellinato si è drasticamente ridotta, tanto che le ditte sementiere sono in grandissima crisi (sul web troverete appelli disperati ed azioni lobbistiche per ripristinare la legge). Ora mi chiedo quale sarebbe stato il beneficio che la ricerca ha fornito all’agricoltura? Sicuramente però ogni anno questi soggetti in regime di monopolio hanno drenato milioni di euro dagli agricoltori, i cui risultati produttivi sono certamente tangibili.
L’obiezione di granduro è molto sensata, ma non dobbiamo confendere il brevetto con il cartellino, che è una certificazione pubblica.
A mio avviso la certificazione pubblica (unita all’obbligo sostanziale di usare seme cartellinato) disincentiva le imprese sementiere a fare ricerca e innovazione, che non è più necessaria per conquistare posizioni sul mercato. Il brevetto è l’esatto contrario, si tratta di un premio che il mercato riconosce (senza obblighi, nessuno obbliga a scegliere una varietà sulla quale è necessario pagare una royalty) a chi ha sviluppato un’innovazione tecnologica vantaggiosa per chi sceglie liberamente di usarla.
Ne ho parlato poco tempo fa in questo post:
https://lavalledelsiele.com/2010/12/18/meglio-meglio-brevettato-che-certificato/
Il suo articolo precedente mi trova molto d’accordo.
Non colgo però la differenza tra brevettato e cartellinato. In Italia una varietà brevettata per essere commercializzata va cartellinata. Quindi in sostanza i termini coincidono (se non mi sfugge qualcosa).
Il disincentivo non è la pubblica certificazione (che dovrebbe essere una forma di tutela di quanto immesso sul mercato) a mio avviso, ma l’obbligo di utilizzare tali sementi a prescindere dal loro valore.
Credo comunque che ci troviamo sostanzialmente d’accordo.
Complimenti per il sito, conto di seguirla.
Il brevetto è il diritto di godere in esclusiva dei benefici dello sviluppo di una qualsiasi tecnologia, non solo in agricoltura, per un certo numero di anni. Significa che se io invento qualcosa non può arrivare un’altro, magari meglio piazzato di me sul mercato, e cominciare a produrre la mia invenzione. Questo nel settore del miglioramento varietale significa che se una ditta sementiera brevetta un varietà vegetale può godere dell’esclusiva di produrla e venderla (in cambio della completa pubblicità, questo per me è un aspetto importante, delle modalità con cui quella varietà è stata ottenuta). Allo scadere del brevetto chiunque potrà cominciare a produrla e venderla. Dato che però alcune varietà, penso alla soia, possono essere riseminate perché non sono ibride, la società detentrice del brevetto chiede all’agricoltore il pagamento di una royalty nel caso che il seme da lui prodotto venga riseminato per il raccolto successivo. Questo perché in quel caso l’agricoltore riproduce in proprio del materiale brevettato.
La certificazione e il cartellino sono cose diverse, perché riguardano qualsisasi semente prodotta per essere commercializzata per la semina al di là del fatto che sia protetta da un brevetto o meno. Alberto Guidorzi ha scritto un’interessante serie di 4 articoli su questo argomento su questo blog, dal titolo “selezionatori o insaccatori”, che va più nello specifico, grazie alla sua lunga esperienza nel settore.
Per parlare di grano duro, settore che credo le stia particolarmente a cuore :-), nessuno chiede il pagamento di nessuna royalty per seminare creso, duilio o simeto. Sono varietà selezionate ormai da decenni, e se mai sono state brevettate ormai il brevetto è scaduto. Questo non toglie che vadano certificate e cartellinate per essere vendute.
A mio avviso quest’obbligo risponde alla concezione paternalista e statalista secondo la quale un agricoltore o qualsiasi individuo debba essere protetto dalla possibilità di sbagliare. Si dice che l’obbligo di acquistare semente certificata protegga l’agricoltore dal prendere fregature, ma secondo me fornisce una rendita proprio ai sementieri, rendita che in Italia hanno sfruttato malissimo, che non hanno più l’obbligo di accontentare i loro clienti, dato che i loro clienti sono costretti comunque a rifornirsi da loro.
ps. grazie per i complimenti al blog, che ricambio, dato che ho fatto una passeggiata sul suo (e complimenti soprattutto per il suo grano che sembra avere un aspetto magnifico, e dopo le ultime stagioni – non so come è andata in Sicilia, ma dalle nostre parti è stato un disastro a cominciare dalle malattie – non è cosa da poco).
Il Simeto è stato sicuramente brevettato, come penso anche le altre varietà. Il sementiere da cui mi fornisco paga regolarmente le royalty ai costitutori di tutte le varietà che commercializza.
Ma nessun sementiere al momento, qui in Sicilia, ha mai chiesto all’agricoltore, royalty sulla risemina della propria produzione. Credo anzi non sia contemplato dalla legge italiana, e l’articolo di Guidorzi non mi pare che chiarisca (ma probabilmente mi sbaglio).
Qui in Sicilia si prospetta un annata magnifica su tutto il territorio regionale, se il prezzo tiene, quest’anno non ci dovremmo lamentare troppo. Tra qualche settimana comincio a trebbiare e le faccio sapere qualcosa di concreto.
Granduro
Il ragionamento sulla creazione varietale, che voi avete trovato semplicistico se applicato al Sud dell’Italia, non è inficiato dalle vostre considerazioni, ma da un addomesticamento e da una elusione delle regole tipicamente italiani. Conosco quelle disposizioni e le spiego le motivazioni: si è cercato con il provvedimento di dare una connotazione migliore alla produzione di grano duro italiano (e cercare anche d’aumentare la produttività agricola) per migliorare e dare un’immagine all’industria della nostra pasta frutto di esportazioni. Infatti, visto che nel grano tenero, non tanto da noi quanto in Francia, si è calcolato che al solo continuo rinnovo varietale sia ascrivibile l’incremento di 0,6-0,7 q/ha/anno, si è pensato che, fornendo un seme di una varietà testata ufficialmente in prove agronomiche e poi controllata in purezza varietale e in germinabilità nella moltiplicazione del seme da fornire agli agricoltori, si potesse raggiungere gli scopi suddetti. Il cartellino della certificazione apposto doveva essere sinonimo di certificazione della qualità del seme e della sua rispondenza alla varietà iscritta, pèrchè rivelatasi apportatrice di ulteriore miglioramento. Inoltre con il permettere alle aziende sementiere di ricavare un più sicuro guadagno dal loro incaricarsi dal soddisfare quanto stabilito dalla legislazione sementiera nazionale, si sperava si potesse incentivare la ricerca privata per creare un rinnovamento nel panorama varietale del frumento duro. Lo scopo era: un dare per avere”. Infatti, negli ultimi venti anni si è assistito ad un certo dinamismo varietale con la creazione di molte nuove varietà che doveva portare benefici, ma purtroppo le medie produttive (2007) nelle regioni meridionali quali:Puglia, Sicilia e Basilicata sono rispettivamente di 28,22,24 q/ha (nelle Marche, con le stesse varietà si sale già a 41 q/ha medi di produzione… come mai?). Ricordo però che la situazione era più catastrofica quando gli aiuti comunitari erano molto più elevati (si arrivò fino ad oltre 1 milione di £/ha) e non c’era l’obbligo del seme certificato; ho assitito a semine, per accedere al diritto all’aiuto, che non producevano più di 5/6 q/ha. Si coltivava per l’aiuto e basta e ciò era un comportamento asociale.
E’ noto che le potenzialità produttive ascrivibili alla qualità ed alla genetica del seme divengono realtà solo se sono accoppiate ad itinerari tecnico-agronomici confacenti. I dati delle prove sperimentali ne sono la dimostrazione e mi piacerebbe si guardassero e si leggessero di più. Lei si chiede: “ Ora mi chiedo quale sarebbe stato il beneficio che la ricerca ha fornito all’agricoltura?” Io allora vi chiedo siete sicuri che la granicoltura meridionale abbia fatto di tutto in fatto di tecnica per supportare la genetica nuova?
Lei cita l’esempio del Simeto che dalle prove sperimentali è una buona varietà ed è emtrata in certificazione nei primi anni 90 (tra l’altro nel genotipo vi è la famosa varietà Cappelli, non più coltivabile, seppure mantenuta all’iscrizione, perché troppo alta e quindi allettabile), ma vi è un rebus a questo riguardo perché io possiedo l’elenco delle varietà agrarie iscritte al Registro delle varietà del MIPAAF aggiornato al 15/5/2000 e rilevo che la varietà Simeto dal 30/6/2002 non è più commercializzabile in quanto radiata, mi può dire come mai se ne fa ancora commercio? Il costitutore risulta PRO.SE.ME.
@ Giordano
La certificazione delle sementi da porre in commercio è obbligatoria in tutta l’UE, ma se un agricoltore vuol usare sementi non certicate lo può fare liberamente, vi è solo un’incongruenza ed è data dal fatto che molti non vogliono riconoscere il diritto al costitutore, ma pretendono di seminare sempre la varietà cher va per la maggiore (evidentemente gli assegna un valore, e perché allora la vuole gratis?). Non ci sarebbe niente da dire se seminasse ancora il Cappelli che è varietà libera.
Tu dici che la certificazione pubblica unita all’obbligo di usare seme certificato per ricevere gli aiuti comunitari disincentiva la ricerca e l’innovazione. Questo è valido solo per i sementieri-burattatori e purtroppo ve ne sono molti in Italia, non è così per chi ha l’orgoglio della creazione varietale e vuole dare lustro al proprio marchio. Ma orgoglio e lustro hanno anche loro un contenuto economico e quindi si tende a conquistare parti del mercato sementiero le più ampie possibili, ma l’obbligo delle sementi certificate non assicura automaticamente ciò, il mercato si conquista facendo toccare con mano all’agricoltore, che vuole intraprendere, che quella particolare varietà di mia costituzione, a parità di tecnica di coltivazione , fa produrre di più.
Questa è la regola che vale laddove vi sono agricolture dinamiche e altamente produttive, purtroppo l’Italia non rientra in questa categoria.
Ti voglio sottomettere un altro aspetto. Gli aiuti comunitari sono soldi pubblici che la collettività elargisce agli agricoltori per aiutarli, ma anche per assicurarsi cibo sufficiente. Quindi un agricoltore ogni volta che riceve l’aiuto economico dovrebbe sentirsi impegnato a corrispondere a questo obbligo. Pertantp se lo Stato decide di obbligare ad usare seme controllato non fa altro che dire al consumatore guarda che ho distribuito soldi tuoi perche fruttino una produzione maggiore e tu sia assicurato di un cibo a prezzi equi. Pertanto non vedo nessuno scandalo a che si leghi aiuto e seme certificato. Lo scandalo lo vedo quando si iscrive una varietà nel registro nazionale (conferendo un permesso di commercializzazione) senza che questa porti in sé un effettiva innovazione che può essere o solo quantitativa o solo qualitativa o ambedue.
P.S. Pressochè nessuna varietà in Italia è brevettata (anche se esiste la legge che ha istituito del brevetto) perché da noi purtroppo la cura la cosa è affidata all’istituto dei brevetti industriali che non hanno ancora capito che un vegetale è un vivente e muta di anno in anno, mentre un pezzo meccanico non cambia più, quindi il pretendere ad esempio i disegni in ambedue i casi e che di anno in anno si rispettino alla lettera i disegni depositati non ha senso. In Italia esiste il COV (Certificato di Ottenimento Vegetale) che certifica che tu sei il costitutore e che ti da titolo di pretendere il pagmaneto delle royaties a tutti quelli che riproducono la tua varietà per farne seme. Il COV salvaguarda il diritto del coltivatore di riseminare, senza dover versare nulla, una parte della sua produzione ma non la può vendere ad altri.
“Ricordo però che la situazione era più catastrofica quando gli aiuti comunitari erano molto più elevati (si arrivò fino ad oltre 1 milione di £/ha) e non c’era l’obbligo del seme certificato; ho assistito a semine, per accedere al diritto all’aiuto, che non producevano più di 5/6 q/ha. Si coltivava per l’aiuto e basta e ciò era un comportamento asociale.”
Era il meccanismo del contributo comunitario che generava tali distorsioni. Ovvero veniva riconosciuto un pagamento a superficie senza alcuna connessione alla produzione, ciò determinava un continuo ricorso al ringrano coltivato peraltro col minimo sforzo, che generava un continuo decremento produttivo.
Il miglioramento produttivo successivo fu dovuto ad un cambiamento di strategia di aiuto comunitario. La gran parte dell’aiuto Pac infatti divenne disaccoppiato dalla coltura (tanto che viene dato anche a chi non coltiva il proprio terreno, mentre chi oggi continua a coltivare lo fa bene ed al meglio delle proprie possibilità – vedi a tal proposito la riduzione delle superfici ).
“E’ noto che le potenzialità produttive ascrivibili alla qualità ed alla genetica del seme divengono realtà solo se sono accoppiate ad itinerari tecnico-agronomici confacenti. I dati delle prove sperimentali ne sono la dimostrazione e mi piacerebbe si guardassero e si leggessero di più.”
Verissimo tuttavia lei, come tutti i miglioratori genetici, è convinto che la realtà sia costituita dal campetto sperimentale con i suoi blocchi randomizzati, mentre l’agricoltura di pieno campo rappresenta un tentativo maldestro ed incompiuto di coltivare le preziose varietà messe in campo dalla ricerca.
Io al contrario sono convinto che i campi sperimentali sui quali sono allevate le varietà da migliorare, siano quanto di più lontano dalla realtà che queste piante troveranno in campo. In pratica è come se voi selezionaste e coccolaste puledri di pura razza inglese per le corse sul miglio, senza voler tenere conto che questi invece dovranno tirare i carretti (almeno qui al Sud). Le tecniche agronomiche adottate per i test varietali, pubblicate sui maggiori giornali, sono quanto di più irrealistico si possa trovare per svariate ragioni che se vuole le spiego (ne parlo con cognizione di causa).
L’agricoltura del Sud, in primis, deve sopravvivere, poi potrà anche dedicarsi a soddisfare le richieste della genetica nuova. In tal senso l’insuccesso delle nuove varietà è da considerarsi una responsabilità dei costitutori che evidentemente mal conoscono l’ambiente in cui lavorano. Premiarli con l’obbligo di acquistare le loro varietà sarebbe ingiusto. Se saranno bravi, le torneremo ad acquistare. Semplici regole di mercato.
Sul Simeto non so cosa dirle, ho seminato seme di 1’ riproduzione di Simeto regolarmente cartellinato sino all’anno scorso. Ed in Sicilia è ancora la varietà più diffusa. Il costitutore è PROSEME confermo, una azienda peraltro siciliana almeno in origine.
Grazie per il prezioso chiarimento finale del postscriptum. In effetti la confusione regna sovrana. Lei è sicuramente molto competente, tuttavia ha una immagine un po’ troppo stereotipata dell’agricoltore del Sud, mi sembra.
P:S: l’aiuto comunitario a torto secondo me, costituisce un’ integrazione al reddito degli agricoltori completamente sganciato dall’eventuale apporto produttivo e qualitativo, tanto è vero che viene percepito anche se il terreno non viene coltivato. E’ una aberrazione sono d’accordo, ma certo non sono stati gli agricoltori a volerla. Nessuna pretesa dunque da parte della collettività, se essa stessa preferisce fantomatici benefici ambientali al cibo.
@ Giordano
La certificazione delle sementi da porre in commercio è obbligatoria in tutta l’UE, ma se un agricoltore vuol usare sementi non certicate lo può fare liberamente, vi è solo un’incongruenza ed è data dal fatto che molti non vogliono riconoscere il diritto al costitutore, ma pretendono di seminare sempre la varietà cher va per la maggiore (evidentemente gli assegna un valore, e perché allora la vuole gratis?). Non ci sarebbe niente da dire se seminasse ancora il Cappelli che è varietà libera.
Tu dici che la certificazione pubblica unita all’obbligo di usare seme certificato per ricevere gli aiuti comunitari disincentiva la ricerca e l’innovazione. Questo è valido solo per i sementieri-burattatori e purtroppo ve ne sono molti in Italia, non è così per chi ha l’orgoglio della creazione varietale e vuole dare lustro al proprio marchio. Ma orgoglio e lustro hanno anche loro un contenuto economico e quindi si tende a conquistare parti del mercato sementiero le più ampie possibili, ma l’obbligo delle sementi certificate non assicura automaticamente ciò, il mercato si conquista facendo toccare con mano all’agricoltore che vuole intraprendere che quella particolare varietà di miua costituzione, a parità di tecnica di coltivazione , fa produrre di più.
Questa è la regola che vale laddove vi sono agricolture dinamiche e altamente produttive, purtroppo l’Italia non rientra in questa categoria.
Ti voglio sottomettere un altro aspetto. Gli aiuti comunitari sono soldi pubblici che la collettività elargisce per assicurarsi cibo sufficiente. Quindi un agricoltore ogni volta che riceve l’aiuto economico dovrebbe sentirsi impegnato a corrispondere a questo obbligo. Pertantp se lo Stato decide di obbligare ad usare seme controllato non fa altro che dire al consumatore guarda che ho distribuito soldi tuoi perche fruttino una produzione maggiore e tu sia assicurato di un cibo a prezzi equi. Pertanto non vedo nessuno scandalo a che si leghi aiuto e seme certificato. Lo scandalo lo vedo quando si iscrive una varietà nel registro nazionale (conferendo un permesso di commercializzazione) senza che questa porti in sé un effettiva innovazione che può essere o solo quantitativa o solo qualitativa o ambedue.
P.S. Pressochè nessuna varietà in Italia è brevettata (anche se esiste la legge che ha istituito del brevetto) perché da noi purtroppo che cura la cosa è affidata all’istituto dei brevetti industriali che non hanno ancora capito che un vegetale è un vivente e muta di anno in anno, mentre un pezzo meccanico non cambia più, quindi il pretendere ad esempio i disegni in ambedue i casi e che di anno in anno si rispettino alla lettera i disegni depositati non ha senso. In Italia esiste il COV (Certificato di Ottenimento Vegetale) che certifica che tu sei il costitutore e che ti da titolo di pretendere il pagmaneto delle royaties a tutti quelli che riproducono la tua varietà per farne seme. Il COV salvaguarda il diritto del coltivatore di riseminare, senza dover versare nulla, una parte della sua produzione.
Granduro
“Era il meccanismo del contributo comunitario che generava tali distorsioni. Ovvero veniva riconosciuto un pagamento a superficie senza alcuna connessione alla produzione, ciò determinava un continuo ricorso al ringrano coltivato peraltro col minimo sforzo, che generava un continuo decremento produttivo”.
Verissimo. Ma non vorrà dirmi che che questo è un comportamento da agricoltore virtuoso. Perché il cittadino contribuente deve pagare l’1% d’IVA in più per costituire i fondi europei da ridistribuire agli agricoltori e vedersi ripagato in tal modo, non aveva il diritto di avere cibo più a buon mercato invece di pagare dei trasporti dall’Australia e dal Canada? Come mai gli agricoltori francesi hanno usato questi soldi per fare innovazione e migliorare la loro produttività? Come mai che i francesi producono in media 50 q di grano duro? Il loro ambiente non favorisce la produzione di grano duro ma hanno saputo creare varietà adatte e itinerari agronomici idonei. E per poterle valuare hanno fatto le tanto aborrite e da lei sottovalutate prove sperimentali.
“Io al contrario sono convinto che i campi sperimentali sui quali sono allevate le varietà da migliorare, siano quanto di più lontano dalla realtà che queste piante troveranno in campo”.
Pensi che l’agricoltore vero ha sempre sperimentato, mentre lei adesso non lo vuol più fare? La invito a riflettere cosa significa sperimentare: innanzitutto mi pongo come obiettivo una variabile da studiare e poi cerco di rendere tuttte le altre variabili delle “invariabili” (nei limiti del possibile) quindi fare sperimentazione significa, volutamente, creare condizioni totalmente diverse dalla coltivazione in campo da parte dell’agricoltore, perché se non faccio questo i dati che risultano non sono interpretabili. Le faccio un esempio pratico: per fare una varietà si parte da un incrocio e poi si segue la progenie per vedere se ho creato qualcosa di valido e soprattutto superiore a tutte le altre varietà costituite almeno in qualche parametro importante (qualità, produttività, rusticità). Come faccio a fare ciò? Eseguo delle prove parcellari e se sa cosè la randomizzazione comprende che è un modo per non mettere qualche tesi in vantaggio rispetto alle altre. Le prove sperimentali da fare sono molteplici, a seconda degli aspetti che devo valuatare, e ripetute negli anni in quanto devo vedere la produttività, il comportamento rispetto alle malattie, la qualità del prodotto, quale itinerario agronomico risponde meglio per quella varietà in modo da dare all’agricoltore che acquista la nuova varietà anche i consigli tecnici conseguenti. Per fare tutto questo e tutte le analisi di laboratorio sa cosa occorre spendere ed anticipare somme ingenti: per ottenere una varietà di frumento che riesca sul mercato occorre anticipare mediamente 1 milione di € (deve tener conto di tutti gli incroci che porto avanti e poi mi accorgo che non hanno nessuna validità). Sa quante varietà veramente di qualità superiore si può pensare di trovare in un secolo? Non più di tre o quattro. Ecco perché il vero selezionatore ha bisogno di ricevere una royalties su ogni quintale di seme della sua varietà che si vende, deve ripagarsi di quanto speso e avere fondi per continuare la ricerca. Tutto quanto abbiamo acquisito in fatto di tecnica e di miglioramento produttivo è stato ottenuto studiando le risultanze sperimentali e nessuno le contesta, salvo lei. Si ricordi che è un risultato positivo anche scoprire il contrario di quello che si voleva dimostrare.
Se lei mi dice che in Italia molti di quelli che si definiscono selezionatori queste cose non le fanno o le fanno male, mi può trovare d’accordo. E’ per questo che ho contrapposto selezionatori e insaccatori negli articoli scritti per “la valle del siele”. L’Italia ha rinunciato ad avere un’industria sementiera vera, ma si vede in che condizioni è precipitata la nostra agricoltura.
“L’agricoltura del Sud, in primis, deve sopravvivere…..”
Mi sa dire come fa l’agricoltura del Sud a sopravvivere se non aumenta la sua produttività unitaria a parità di costi? Se insiste su questi concetti sballati mi fa dubitare della sua capacità imprenditoriale di agricoltore.
Il suo P.S. conferma quanto io sto dicendo da tempo. In Italia a differenza di tutti Paesi comunitari basta possedere della terra per essere assimilati ad agricoltori (la colpa di questo stato eè delle associazioni agricole che fanno il seguente ragionamento miope: tanti persone “chiamate agricoltori”, tante quote associative incasso. Occorre che vi sia un albo degli agricoltori professionali e solo a quelli si danno gli incentivi a produrre. In Francia un avvocato di professione può anche comprare della terra, ma non avrà mai diritto di essere assimilato alla figura professionale dell’agricoltore. Se la terra l’eredita è la stessa cosa. Voi imprenditori agricoli a tenpo pieno dovreste lottare perché ciò accada, in quanto è il solo modo di accedere a nuove superfici a prezzi accessibili.
Non so, ma lei si è informato di come si fa agricoltura in altri Stati europei dell’UE?
La colllettività ha ragione a pretendere sia cibo che rispetto ambientale, in altri termili esigono che l’agricoltura diventi “durevole”, si ricordi che il 40% del bilancio comunitario va agli agricoltori e quindi hanno dei doveri verso chi li sovvenziona. Certo non condivido le convinzioni massimaliste di certi ambientalisti.
Il primo commento rivolto a Giordano è evidentemente una ripetizione, non il secondo rivolto a Granduro. Me ne scuso.
Giusto per informazione, il brevetto del Creso, detenuto dall’ENEA, è scaduto pochi mesi fa, all’inizio del 2011
Alberto, lasciamo perdere il discorso sugli agricoltori più o meno virtuosi: la PAC post riforma MC Sharry aveva come obbiettivo dichiarato la riduzione delle rese, per evitare la costosissima gestione delle eccedenze, e l’obbiettivo è stato senz’altro centrato. Ci davano soldi (e parecchi, in qualche caso, come hai ricordato per il grano duro, ma si può parlare anche di mais, o di oleaginose in qualche periodo) a prescindere dal prodotto, è evidente che produrre è diventato una seccatura. Che c’è di così strano? Non si può parlare di comportamenti asociali, dato che un imprenditore risponde agli stimoli e agli incentivi che gli vengono offerti, e il suo obbiettivo è comunque il profitto. poi possiamo discutere a lungo sull’opportunità di sussidiare l’agricoltura, e in che modo, e come sai su queste pagine l’ho fatto spesso con posizioni molto impopolari tra gli agricoltori, ma il problema è tutto lì: più forti e contradditori sono le distorsioni imposte al mercato, più nefasti sono gli effetti. Le rese sono calate perché hanno preteso che calassero, e oggi che dovrebbero aumentare non siamo attrezzati. Anche questo non dovrebbe meravigliare.
E’ invece interessante il discorso sulla corrispondenza tra prove e confronti varietali e la realtà. Anch’io ho spesso trovato poca corrispondenza tra le tabelle e i risultati, ma credo che questo è un problema che dovremmo ricominciare ad affrontare noi agricoltori, in un momento come questo in cui la produttività fa la differenza. Voglio dire, la mia azienda è in collina interna, crete del tipo “Val d’Orcia”, si lavora solo coi cingolati, insomma una zona particolare e circoscritta, per terreno e clima, e scarsamente produttiva. So benissimo che le varietà non le costituiscono per noi, e non posso pretendere di ottenere da me i risultati che sono pubblicizzati sui campi sperimentali più vicini, ovvero quelli di Tarquinia dell’Università della Tuscia, che è in Maremma, vicino al mare, si trebbia un mese prima e la terra è completamente diversa.
Allora dovremmo noi trovare il modo di fare “sistema” e dedicare alcuni terreni a prove e confronti, utilizzando al tempo stesso l’esperienza locale e la competenza degli esperti.
Insomma dovremmo cominciare a renderci conto che, anche se continuano a pagarci per non produrre, a noi conviene ricominciare a farlo, riducendo i costi e aumentando le rese unitarie. Forse dovremmo pretendere dai sementieri varietà buone piuttosto che riseminare la roba dell’altr’anno. Anche perché ho il sospetto che in molti caso la roba dell’altr’anno ce la rivendono spesso direttamente loro, e forse il calo delle rese dipende proprio da comportamenti scorretti da parte di sementieri e commercianti in un epoca in cui a noi tutto sommato andava bene così, che tanto ci interessava più che altro il contributo.
PS. Grazie Dario per la precisazione
“Le rese sono calate perché hanno preteso che calassero, e oggi che dovrebbero aumentare non siamo attrezzati. Anche questo non dovrebbe meravigliare.”
Scusa Giordano, ma qui siamo nello stesso caso del marito che “se li taglia” per far dispetto alla moglie, e, guarda caso, gli agricoltori italiani hanno fatto proprio questo; non era più saggio continuare ad imparare come produrre di più ed intascare tanti soldi? Tra l’altro noi italiani ne prendevamo più degli altri per i meccanismi agrimonetari delle “monete verdi”.
Guarda che siamo stati solo noi a comportarci così e forse i greci. I francesi ed i tedeschi hanno fatto l’inverso, pur ricevendo gli aiuti comunitari come noi. Io ho frequentato l’agricoltura francese per 40 anni ed ho imparato che un agricoltore è tale solo se tende, qualsiasi sia lo scenario, a cercare di produrre fino all’ultima unità che, dedotti i costi per produrla, gli dia margine. Ci sono altre entrate? Bene, s’incassano e si usano per fare innovazione. Per chiarirti ti faccio l’esempio delle bietole le cui medie di produzione di zucchero bianco estratto sono passate in Francia, in 40 anni, da 80 q/ha a 135 q/ha. Il settore bieticolo saccarifero comunitario (quindi anche italiano) è retto delle quote di produzione di zucchero: le bietole che consorrono a produrre zucchero entro la quota assegnata a ciascun paese hanno un prezzo, mentre le bietole che si producono e concorrono a produrre zucchero oltre la quota prefissata sono prezziate in funzione dei prezzi mondiali dello zucchero; di norma molto più bassi dello zucchero di quota comunitario. Ebbene sai che ragionamento hanno fatto i francesi? Quello di dire che occorreva produrre il massimo possibile per ettaro in modo da produrre le bietole di quota investendo la minor superficie possibile. Le eveutuali superproduzioni, pagate molto poco, non li spaventavano in quanto erano prodotte nella stessa minima superficie. Con questa direttrice hanno creato quel po po di aumento produttivo che ti ho detto sopra.
Vuoi sapere cos’abbiamo fatto noi italiani, per paura di sballare ne seminavamo di meno e non sfruttavamo in pieno le nostre quote di produzione, anzi al limite era invalso il concetto che si limitavano le concimazioni e le protezioni alle coltivazioni per paura di produrre troppo. Con questo sistema la nostra produttività in zucchero per ettaro da 50 q è passata ai 60 di prima della riforma del 2006. In altri termini per molto tempo si è fatto reddito con il prezzo e non con la produzione, anzi dimenticando o non rimanendo aggiornati su come produrre di più.
Nel 2006 vi è stato il redde rationem; a causa di accordi in sede WTO, l’UE ha dovuto diminuire di 1/3 la sua produzione di zucchero, e vuoi sapere come ha fatto a far diminuire gli investimenti a bietole dei vari Stati ed ottenere il calo di produzione di zucchero a livello comunitario? Ha calato i prezzi garantiti. L’Italia con le produzioni che si ritrovava ha dovuto smantellare il suo settore bieticolo saccarifero, mentre la Francia con le produzioni che aveva raggiunto ha potuto sopportare la botta pur dovendo diminuire un po’ le sue superfici. Ora con l’aumento dei prezzi mondiali dello zucchero è ritornata ad aumentare la superficie. La stessa cosa abbiamo fatto con il grano duro, con il grano tenero, con la soia, ed ora lo stiamo facendo con il mais.
Questo significa fare agricoltura! Il mestiere dell’agricoltore è saper produrre sempre meglio e di più, chi non fa questo non merita di essere chiamato tale. Per finire ti do le medie produttive francesi delle principali piante erbacee coltivate (in quintali):
Frumento tenero 73, orzo invernale 65, orzo primaverile 60, avena invernale 50, avena primaverile 45, grano duro 50 (coltivano mezzo milione di ettari di grano duro), triticale 50, granoturco 90, sorgo 55, bietola 135, colza invernale 33, colza primaverile 25, girasole 25, soia 25, pisello proteico 45, favino 50. Prova a confrontare queste medie con quelle italiane (ammesso che tu trovi delle statistiche affidabili.
Questa vocazione a produrre ha permesso ai farncesi di mantenere e sviluppare anche un’industria sementiera nazionale, mentre il nostro non preoccuparsi di produrre ha spazzato via quel po’ di industria sementiera che avevamo e quindi dipendiamo sempre più dall’estero per le nostre sementi, ma dall’estero arriverà sempre del materiale che ha delle pecche di adattamento.
Il titolo dato alle mie note che hai avuto la gentilezza di pubblicare, aveva una sua ragione ed era provocatoria. Adesso porto fino in fondo la provocazione. IN ITALIA ABBIAMO MOLTI PIU’ INSACCATORI DI “GRANO USO SEME” CHE DI SELEZIONATORI E LA LEGGE SEMENTIERA NON FUNZIONA.
Dario
Il brevetto del creso, se l’ENEA l’ha chiesto, deve essere già scaduto nel 94 perchè il brevetto dura 20 anni e non è prorogabile
Ciò che scade nel 2011 è l’iscrizione al Registro Nazionale dellle varietà vegetali, avvenuta nel 1974, e questa invece è prorogabile. L’iscrizione al Registro significa ricevere il COV e permette la possibilità di certificare la produzione di una varietà e di cartellinare la moltiplicazione per poterla vendere come semente. Infatti per il creso vi è stata una reiscrizione nel 1990, un’altra vi deve essere stata nel 2000 e l’altra è scaduta nel 2010. Ora se entro questa data non hanno richiesto un’ulteriore proroga la varietà verrà radiata dal Registro e quindi non sarà più certificabile e quindi commercializzabile.
Guidorzi
Lei solleva varie interessanti questioni, verso le quali io mi sento, tuttavia, parzialmente inadeguato. Mi scuserà se tralascerò di rispondere al grosso del suo intervento.
Proverò a focalizzare il mio impegno verso il punto debole, a mio avviso, della visione sua e dei suoi colleghi: l’aspetto economico-finanziario della produzione del grano duro. Vorrei peraltro provare a rasserenarla circa la lucidità delle mie scelte imprenditoriali.
Lei dice:
“Mi sa dire come fa l’agricoltura del Sud a sopravvivere se non aumenta la sua produttività unitaria a parità di costi? Se insiste su questi concetti sballati mi fa dubitare della sua capacità imprenditoriale di agricoltore”.
L’obiettivo principale della attività di imprenditore, almeno così dice la teoria economica classica, è la massimizzazione del profitto (si può dire profitto? Non è ancora una parolaccia, almeno credo).
Ed io volente o nolente sono costretto a stare a questa regola per il bene della mia azienda e della mia stessa vita economica. Naturalmente nel rispetto delle regole e delle leggi (anche quelle discutibili). Non nascondo che in alcuni casi le mie scelte non siano esclusivamente economiche in quanto sono in parte inevitabilmente legate alle mie idee, alle mie sensazioni e perché no, ai miei pregiudizi (nessuno è perfetto). Tuttavia raggiungere il massimo ricavo è, e resta a mio giudizio, l’obiettivo principale dell’imprenditore classico.
Come raggiungere questo obiettivo dunque? (ragionando soltanto sui costi colturali, ed in maniera molto sintetica)
Prima ipotesi
Aumentare la produzione e la qualità al massimo della resa con un ricorso elevato ai mezzi tecnici. Quindi elevate dosi di Fertilizzanti, ampio ricorso ai fitofarmaci, fungicidi, sementi pregiate etc.
Benissimo, questa è una strada!
Seconda ipotesi
Puntare ad una produzione e qualità media, molto al di sotto delle potenzialità agronomiche con minimo ricorso di input. Agricoltura low – input, ecosostenibile (soprattutto finanziariamente dico io) per darle una definizione dotta.
Bene questa è la seconda ipotesi. Chiaramente tra le due strade estreme esistono varie possibilità intermedie facilmente intuibili che per brevità non menzionerò.
Quale scelta compiere dunque? Lei da per scontato che la migliore sia la prima (se ho ben capito), o qualcosa che gli assomigli. Ho letto da qualche parte…. “non era più saggio continuare ad imparare come produrre di più ed intascare tanti soldi?”.
Io invece non ritengo che una sia migliore dell’altra (almeno per gli aspetti economico-finanziari, su quelli ambientali potremmo discutere). Così in relazione alle dinamiche economiche in atto e tenendo ben presente le peculiarità pedo-climatiche del mio territorio, modifico e scelgo la strategia produttiva a mio giudizio più conveniente. E’ evidente che in presenza di prezzi di vendita del prodotto molto elevati e costi colturali ridotti tenderò a privilegiare la prima strada (che fu quella della Rivoluzione Verde sino ai primi anni ’80) mentre al contrario con valori del prodotto esigui e prezzi dei mezzi tecnici di produzione elevati tenderò a orientarmi verso la seconda. Ora forse lei non se ne accorto, ma negli ultimi 20 anni il prezzo medio del frumento (tranne la fiammata dell’inverno 2008, e del gennaio 2011 di cui hanno goduto tuttavia la minoranza degli agricoltori) è stato molto basso con una oscillazione tra i 15 ed i 20 € per q, mentre al contrario il costo del gasolio, dei concimi, dei fitofarmaci, delle sementi obbligatorie, dei trasporti, dei ricambi, della burocrazia, dello smaltimento dei rifiuti, della manodopera, etc. perché sicuramente ho dimenticato qualcosa sono aumentati significativamente . Il Gasolio agricolo ad esempio costa quasi 1 € al l, mentre all’inizio degli anni ’80 costava 400 £/l, il frumento duro in quegli anni invece veniva quotato 400-500 £/kg contro gli attuali 0.22 €/kg.
Nella situazione economica attuale dunque le assicuro conti alla mano (ma se ha qualche dubbio sono pronto ad analizzare con lei voce x voce del mio costo colturale) che conviene molto di più in Sicilia proporsi un obiettivo produttivo e qualitativo moderato, ma con costi minimi, piuttosto che una resa al top con costi elevati.
In più aggiungo che almeno in Sicilia predisporre la pianta verso una resa massima (che chiaramente sarà comunque sempre minore della stessa pianta coltivata al Centro Nord) è un grosso rischio. E’ vero che in linea di massima porterà a produzioni maggiori, ma purtroppo in alcune annate, che sfortunatamente si verificano questo elevato lussureggiamento potrebbe risultare controproducente e dannoso. Mi riferisco non solo ad annate siccitose (che per quanto rade negli ultimi anni possono essere sempre in agguato) ma soprattutto ai nefasti venti sciroccali che tanto condizionano la fase di maturazione della nostra granella.
Posto dunque che la tecnica agronomica più economicamente conveniente, allo stato attuale e limitatamente alle condizioni medie siciliane, non è quella suggerita da manuali, agro-soloni, costitutori, genetisti ed esperti vari, appare evidente il motivo per cui le varietà selezionate con certi criteri (consumistici, mi verrebbe da dire) nella parcella sperimentale, arrivate in campo abbiano serie difficoltà ad esprimere le proprie potenzialità e risultino degli insuccessi.
Potrebbe risultare non troppo stupido, a mio avviso selezionare, oltre che per i solerti agricoltori padani i quali evidentemente apprezzano varietà iper produttive, iper qualitative ed iper costose, anche per noi poveri agricoltori siculi dalle scarse pretese. Stia tranquillo che il mercato, almeno isolano, le apprezzerebbe.
L’attività agricola, in fondo, non è una gara produttiva. Le assicuro, nessuno mi da una medaglia se produco tanto. I miei campi non saranno i migliori del comprensorio (anche se non sono male, anzi la invito a dare un occhiata alle foto sul mio blog “questo l’ho fatto io”). Ma il mio bilancio aziendale di sicuro lo è.
Probabilmente le mie considerazioni come lei dice saranno sballate, tuttavia la mia azienda è in salute, non ha debiti ed anzi conto di espanderla a breve. Strano, ma vero!
Granduro
Facciamo presto a dirimere la quastione del dove la classifico come agricoltore. Io parto dal concetto che tutto è relativo in campagna.
Suno sicuro che lei ha produzioni di grano duro superiori alla nedia di 21 q della Sicilia, ma vorrei sapere: dove si colloca come produzione tra le produzioni medie dei buoni agricoltori del suo comprensorio? Se si colloca nei livelli superiori della media suddetta rientra nella cetgoria che dico io, se invece si colloca ai livelli inferiori ha margini di miglioramento e li deve perseguire, secondo il mio modo di vedere.
L’agricoltore performante poi non tralascia mai di provare l’innovazione e giudicarla nel contesto del suo modo e nel suo ambiente di coltivazione, ma qui mi ha in parte già risposto dicendomi che prenota delle novità in fatto di varietà.
Guidorzi,
ripeto un buon imprenditore agricolo non si valuta sulla base delle produzioni, ma sull’attivo aziendale. Comunque visto che non ho nulla da nascondere , le posso dire che la mia media aziendale su base ventennale è di circa 28 q/ha, con oscillazioni tra i 12 ed i 50 q/ha. Su una dimensione aziendale di circa 250 ha. Confrontarmi con il comprensorio è complesso, visto che circa il 30 % dei seminativi sono abbandonati, mentre altri hanno produzioni vicine agli 80 q/ha con proteine al 13% ( e poi l’agricoltore siciliano tende a sparare numeri, magari ha i trattori con la guida automatica ma spesso ancora non adotta il sistema metrico decimale). Il mio fiore all’occhiello è tuttavia il costo colturale medio, pari a 250 €/ha tutto compreso. Lì credo di essere imbattibile.
L’innovazione è importantissima. Essa però non deve essere antieconomica, ne imposta, ne tantomeno fine a se stessa. Intollerabile mi risulta infatti l’obbligo di adottarla, come nel caso dell’obbligo di semente certificata che alcuni sementieri vorrebbero reintrodurre anche soltanto in Sicilia (quest’anno la vendita di semente certificata è crollata dell’80% in Sicilia). Vedi il primo mio post sulla semente certificata del mio blog “Semente certficata: Vogliono reintrodurre il balzello”.
Granduro pone delle questioni importanti. la produttività unitaria di un ettaro di terreno in un dato territorio non è un dato da trascurare, anzi, soprattutto ora che le rese possono fare profitto. Voglio dire, stanti le spese (miracolose, a me pare 🙂 di 250 euro/ha, produrre 20 q.li a 20 euro significa guadagnare 150 euro, produrne 40 significa guadagnarne 550, ovvero quasi tre volte di più producendo il doppio. questo vuol dire che in un epoca in cui il sussidio rendeva la parte maggiore del profitto, o la sua totalità, era effettivamente molto più conveniente minimizzare i costi in qualsiasi modo, virtuoso o meno (e per virtuoso intendo la razionalizzazione del parco macchine e delle lavorazioni, l’accorpamento fondiario, ecc., meno virtuoso ma ugualmente conveniente il fermi tutti a cui abbiano assistito nell’ultimo decennio).
poi ovviamente quando vado in Austria (la mia compagna è austriaca) vedo un atteggiamento differente, ma vedo anche terreni che si lavorano con 4 vomeri con trattori da 90 cavalli, macchine in campo con la neve in terra (!!!), gente che fa il fieno il giorno dopo che ha smesso di piovere dopo due settimane d’acqua continuata, e soprattutto 75/80 di media di grano tenero. E’ più facile essere virtuosi in queste condizioni, e non farsi prendere dalla tentazione di mollare e speculare solo sul sussidio.
Potrebbe voler dire che ci sono terreni che vanno abbandonati? Forse, e la cosa non mi darebbe scandalo, d’altronde il progresso va di pari passo con la produttività, e che in certe aree serviamo ormai a poco lo si capisce anche dal fatto che ci sono sempre meno trattori cingolati sul mercato (a potenza medioalta non ce ne sono più, a meno che non ti puoi permettere un Challenger, e le vecchie 120C ormai sono a fine vita) così come ci sono sempre meno trebbie livellanti serie (a doppia ventilazione non ce ne sono più). Però la superficie da mollare è parecchia, e se è assolutamente lontana da me l’idea che bisogna pianger denari per farci tenere in vita artificialmente, prendiamo atto che anche l’industria sementiera avrebbe dovuto conquistarci con prodotti più mirati, piuttosto che farci obbligare dallo Stato a comprare da loro prodotti fatti per altri.
Guarda Alberto che dalle mie parti la varietà più affidabile resta il creso, nonostante tutto, e questo vorrà pur dire qualcosa, e le abbiamo provate tante, a cominciare dai contratti con Barilla per lo zenith 15 anni fa…
@ Giordano
Guarda che sfondi una porta aperta con me per quanto riguarda l’attivita sementiera frumenticola italiana, l’unica che ci era rimasta. Finito di sfruttare come genitore il materiale di Strampelli siamo caduti nel vuoto. Il Creso non è il frutto di un’attività sementiera strutturata è il frutto di una “vincita alla lotteria nazionale” (senza togliere i meriti al Prof Scarascia Mugnozza per averci “giocato”). Comunque se all’agricoltore viene meno lo stimolo a superarsi (e la produttività è uno dei parametri) è meglio non parlare più di agricoltura, ma di possesso di terra.
@ Granduro
Un frumento che produce 30 q/ha o 50 q/ha (lasciamo stare gli 80) si vede in pianta non c’è bisogno di andare sulla bascula. Quindi tu sai benissimo giudicare se il tuo frumento ha l’aspetto della media delle buone coltivazioni o meno.
Quando parlo di innovazione intendo valutare le novità in un angolo della tua azienda e tirarne le somme e molte volte capita che all’inizio l’impressione è buona e poi col tempo saltano fuori i difetti.
Io penso di aver visto nella mia vita milioni di parcelle sperimentali di bietole e di grano. Innazitutto valutavo l’uniformità del campo sperimentale e per farlo lo giravo in lungo in largo e di traverso Se vi erano zone di disomogeneità non m’interessava più vedere le parcelle. Per quanto riguarda le bietole il lavoro di valutazione in vegetazione finiva li in quanto nessun giudizio valido si può dare in vegetazione sulla produzione. Sul frumento in prematurazione invece le parcelle sperimentali dicono tante cose perchè sono visibili e valutabili tanti parametri che permettono di capire ciò che è buono da ciò che è cattivo. Ciò che buono però non è detto che resti buono perche vi è la valutazione pluriannuale e d’ambiente. Ecco, il buon agricoltore deve ogni anno perdere un po’ del suo tempo ad andare a vedere le piattaforme sperimentali delle ditte o degli istituti di ricerca e valutrale ed eventualmente segnarsi quello che pare buono e sperimentarlo nella sua azienda per una valutazione interessata. Una piattaforma sperimentale non deve essere solo varietale, altrimenti è una vetrina (ma la vetrina si può lucidare), ma anche di valutazione del comportamento varietale in funzione di itinerari agronomici diversi.
Se non vi è nulla d’interessante bisogna dirlo a chi di dovere e spronarlo a migliorare, un modo per farglilo caire è anche quello di ignorarlo. La’gricoltore ha bisogno del sementiere come questo ha bisogno dell’agricoltore, ma in italia sembra che non sia sempre vero, però ne vediamo i risultati!
Guidorzi
l’annata in corso sembra magnifica, in realtà già lo avevo scritto in un precedente post.
Esplorare 250 ha non è come fare il giro delle parcelle (che notoriamente vengono piazzate in zone omogenee di terreno). Da noi in Sicilia, si dice che il terreno cambia da palmo a palmo. In alcune zone inesplorabili potrò accedere soltanto sulla trebbia peraltro. Insomma fare la stima(se è questo che mi chiede) non è semplicissimo, diciamo che penso di superare i 35 q di media complessiva.
Il giro delle parcelle sperimentali degli istituti di ricerca e delle ditte locali lo faccio sempre. Voglio tenermi sempre aggiornato sul loro sempre eccelso livello di incomprensione della realtà. In molti casi cedo anche alla tentazione di testare le ultime novità (non solo regionali), dopo 19 anni di inutili tentativi (fastidiosi per un efficientista come me) forse dall’anno scorso ho trovato qualcosa di meglio dell’accoppiata Simeto-Duilio. Ma non voglio sbilanciarmi, una rondine non fa primavera.
Spronarli? no, parliamo linguaggi troppo diversi. E se devo essere sincero mi accade anche con lei. In parte credo sia un problema generazionale. La ricerca è troppo spesso in mano ad una generazione di un’altra epoca, eppure avrebbe tanto bisogno di giovane linfa vitale.
Guidorzi la dovrebbe fare riflettere il fatto che sia io che Giordano Masini, peraltro gli unici agricoltori intervenuti nella discussione, appartenenti a due mondi agricoli lontanissimi, e sicuramente almeno Masini evoluto, continuino a preferire varietà di grano duro costituite decenni fa, alle nuovissime varietà ultraperformanti. Io personalmente ritengo che nel vostro campo, almeno sul grano duro, si lavori parecchio male perchè se ne sconosce la realtà agricola attuale. Al Sud ancora peggio a questa insipienza si aggiunge l’approssimazione. Un sereno esame di coscienza potrebbe rilevarsi utile.
A Giordano Masini
Si, le mie spese sono minime. Come faccio? Per sommi capi, gestisco tutto in prima persona, non ho manodopera, organizzazione ed efficienza tedesca, rotazioni con leguminose, concimazioni azotate medie solo in copertura, diserbi sulle graminacee mirati, osservazione costante delle previsioni meteo, tempestività di intervento e molto fiducia in me stesso. E mi rimane pure tanto tempo libero.
I terreni marginali, io li coltivo tutti con una tecnica agronomica naturalmente diversa rispetto ai migliori , certo producono meno ma ci guadagno lo stesso. Posseggo due trattori e sono gommati (il secondo è di servizio). I cingolati sono nettamente più sicuri e meno invasivi ma sono peggio di una tortura cinese. La trebbia invece ancora non ho avuto il coraggio di acquistarla.
Saluti x entrambi
@ Granduro
Io ho seguito la reatà italiana, ma la rispecchiavo in quella francese e quindi ho potuto fare dei raffronti, tutti perdenti per il mio paese putroppo.
Certo che sentir dire che nel Sud si fa rotazione con le leguminose mi si apre il cuore dalla gioia. Ai coltivatori di Rocchetta Sant’antonio in Puglia che facevano solo ringrano ho detto una volta, ma se i vostri padri, che avevano molta più fame di pane di voi, seminavano la sulla, perchè voi, che non avete bisogno di pane, seminate grano su grano?
Io parlavo, nel guardare i campi, per valuare quanto possono produrre i suoi vicini e fare i confronti.
In Sicilia, attualmente il ringrano è scomparso da almeno un quinquennio.
La rotazione con leguminose (sulla, favetta, veccia, cece) è molto diffusa. Io addirittura adotto una rotazione molto larga nella quale le leguminose si alternano.
Io noto infatti, fenomeni di stanchezza su favetta e cece quando stanno in rotazione stretta biennale. Ma questo non lo ho mai letto in alcun testo. La sulla è la regina ma non si adatta su tutti i terreni, purtroppo.
Nelle zone più intensive si adotta una rotazione con gli ortaggi.
Nelle zone più marginali invece il maggese nudo.
I coltivatori seminavano grano su grano per percepire il contributo comunitario. Non erano loro a sbagliare (anzi il loro comportamento economico era perfettamente razionale), ma chi aveva stabilito tali regole. Se conoscesse le norme comunitarie, come la genetica, saprebbe che quei coltivatori ancor oggi beneficiano economicamente di quel comportamento agronomicamente sbagliato e per lei irrazionale (quei contributi sono stati storicizzati, e chi faceva le rotazioni è stato penalizzato). Dovremmo dal 2013 liberarci di questo fardello, si spera.
Se non conosco perfettamente la storia agronomica di un campo, fare una valutazione della produzione in atto del vicino mi risulta di scarso significato. I confronti li posso fare soltanto se conosco esattamente quali interventi l’agricoltore ha fatto in campo e quanto ha speso per arrivare a quel punto. Solo allora la sua produzione avrà un significato economico per me. Poco romantico lo ammetto, ma la sfida della globalizzazione si affronta in questo modo, a mio giudizio.
A naso le posso dire che rispetto ad una ipotetica media produttiva del comprensorio io mi dovrei porre al di sopra di essa.
Granduro
Finalmente mi ha detto quello che volevo sapere, anche se lo avevo fin dall’inizio immaginato. Quindi per gli altri vi sono le condizioni per migliorare e non perchè lo dico io gurdando in Francia, ma perchè lo dice lei da esperto nel suo ambito. Ecco per me far politica agraria significa elevare le produzioni di chi non ci arriva, se poi non demorde nel coltivare male lo si deve mettere in condizione di lasciare la terra a chi la sa coltivare meglio (non parlo di esproprio, ma di contratti agrari da reinventare).
Finalmente concordo. Purtroppo la politica agraria attuale favorisce chi vive di rendita. Tanto che i terreni abbandonati, divenuti vere e proprie rendite finanziarie, hanno valori troppo elevati per chi vuole realmente coltivarli.
Granduro
Sai cosa costa la terra in Francia? 10.000 €/ha
Sai quali sono i canoni d’affitto? 100 €/ha
Sai cosa costa la terra in pianura padana? 30/40.000 €/ha
Sai quali sono i canoni d’affitto? 500/800 €/ha
Agli agricoltori veri lo strumento della loro professione è proibito, mentre è concesso a professionisti per sistemare capitali.
Granduro, giusto qualche curiosità:
1) che tipo di terreni hai?
2) quando parli di concimazioni azotate solo in copertura vuol dire che eviti completamente la concimazione in semina oppure che ti limiti al fosforo, o all’organico?
3) Lavorazioni del terreno: non mi dire che riesci a stare entro quelle cifre con l’aratura… 🙂
Guidorzi
Molto giusto quanto riporta. In Sicilia, fatte le debite proporzioni, la situazione è molto simile a quella padana. Si, conosco la situazione francese, tempo fa rischiai di diventare un paysan.
Masini
Ottime osservazioni da vero agricoltore.
La mia azienda è molto variegata dal punto di vista pedologico. Sull’argilloso tenace effettuo le arature, dove i terreni sono più leggeri invece minimum tillage con erpice a dischi. Mediamente su ogni ettaro in un anno impiego 5 ore di trattore tutto compreso, che nel 2010 con un prezzo del gasolio agricolo pari a 0.70€/l corrispondono a 50 € di gasolio + 1o € di altre spese di manutenzione. Semente aziendale pulita 40 €/ha, concime azotato 50 €/ha, fitofarmaci 30€/ha, trebbiatura 70€/ha. Somma 250€/ha et voilà, il gioco è fatto (almeno per l’annata 2010-2011, la prossima si prevede più costosa).
In presemina nessuna concimazione. Sarà discutibile, ma sono anni che lo faccio, non ho notato alcun decremento produttivo o di fertilità. Quando per prova ho riusato il presemina in alcune porzioni di terreno non ho notato alcun incremento di resa. Insomma ne faccio a meno, come peraltro oramai quasi tutti nella zona.
I fungicidi li ho provati, ma con una tecnica a basso input di azoto, sono del tutto ininfluenti, soprattutto se uso varietà molto precoci.
Da queste parti la lavorazione minima con erpice a dischi non ha mai dato grossi risultati, troppo superficiale sull’argilla d’estate, ma allo stesso tempo le ripuntature leggere in collina richiedono alte potenze per poter evitare di farle a una sola mano e rendere quindi di nuovo “quasi” conveniente l’aratura…
Sulla concimazione in presemina sono d’accordo con te, non ho ancora avuto modo di provarci perché sono ancora in biologico per un’altro anno, ma sono convinto che funzioni. D’altronde basta guardare le seminatrici pneumatiche da sodo: dove lo mettono il concime (e senza lavorazione non lo possono certo dare col girello…)? E proprio seminare in bio per tanti anni mi ha convinto di questo, dato che il mio campo e quello del mio vicino sono praticamente identici fino a primavera, malerbe a parte. Eppure la razionalizzazione delle concimazioni resta una delle cose più dure da far digerire agli agricoltori: qui da noi senza 2 qli di biammonico in semina, 2 di urea e 2 di nitrato in copertura nessuno fa nulla. Poi ti ci voglio a stare basso coi prezzi.
ps. Beati voi che con 70 euro trebbiate…
ps2. E se ancora non hai comprato la trebbia (neanch’io, mica sono matto) non lo fare. Ho sempre pensato che comprerei più volentieri una trebbia per 40 ettari di mais che per 400 di grano, e solo per una questione di tempestività, dato che il periodo di raccolta del mais è molto più instabile dal punto di vista meteo.
@ Granduro
Sotto un certo punto di vista hai fatto bene a non diventare un paysan perchè colà i prezzi sono molto inferiori dei nostri (sono degli esportatori) e quindi ci si salva solo con gli incrementi di produttività continui. E’ una continua rincorsa.
Da un altro punto di vista e per quanto ho potuto valuatre per quello che hai scritto penso che non avresti sfigurato neppure in Francia.
@ Masini
Mi sorprende il fatto che anche da voi la concimazione presemina sia inefficace.
Pensavo che solo noi del profondo Sud, godendo di inverni miti e relativamente piovosi, potessimo farne a meno. Il ruolo dell’azoto nella prima fase vegetativa probabilmente è più effimero di quanto pensassi.
La trebbia al momento non la compro per varie ragioni (ed il tuo buon consiglio, rafforza la mia convinzione). Intendevo presentare una pratica PSR e sperare nel finanziamento, ma non farò neanche questo. Avere rapporti con l’amministrazione regionale per una pratica PSR è usurante, molto più di una campagna di aratura.
@ Guidorzi
grazie per l’apprezzamento. Ma non creda che io sia un caso isolato, l’agricoltore siculo generalmente è in gamba. Abituato a fare le nozze con i fichi secchi. Ho imparato più da ciascuno di loro che dai miei studi universitari per quanto attiene la coltivazione vera e propria. Io ho soltanto più metodo ed una azienda abbastanza estesa.
Alla Francia invidio soltanto la zootecnia, una agricoltura per essere florida ha bisogno di una forte zootecnia. Ed in Sicilia purtroppo essa arretra sempre più.
Granduro
Hai pronunciato la parola “chiave” della vera agricoltura.
Io vivo in zona parmigiano reggiano, qui le aziende di 15/20 ha con la stalla riuscirebbero ancora a campare, invece la stalla è stata abbandonata in quanto il vecchio genitore ha terminato l’attività lavorativa passata in stalla ed in campagna 365 gg l’anno. Il figlio invece si è fatto illudere dai premi alti e dai prezzi alti dei prodotti agricoli (ante euro) di qualche tempo fa e non ha ripreso la stalla del padre ed ora non campa più e quindi è dovuto uscire dall’azienda per lavorare da operaio. Le aziende che distribuiscono letame una volta ogni ciclo di rotazione si vedono al primo colpo d’occhio per i loro raccolti. Cito un semplicissimo esempio: nei campi con sostanza organica non si hanno mai problemi residuali dovuti ai diserbi. In Francia esitono le conduzioni in comune che vanno sotto l’acronimo di GIEC e l’azienda media francese di 50 ha è obbligata a condurla in GIEC con altri per piter sopravvivere. Di un contratto del genere neppure parlarne in Italia.
Siamo al paradosso che ad un’azienda biologica a cui sono proibiti i concimi chimici, e si vantano di usare solo letame (non sapendo che alla base della parola letame vi è una cognizione tecnica ben precisa, tanto che non tutta la sostanza organica si può chiamare letame),non è fatto obbligo di avere un allevamento aziendale. Questo non senso lo faccio notare agli amanti del biologico e li invito, dato che pagano il cibo che comprano il tra il 30 ed il 50% in più, a pretendere che la certificazione venga data solo a chi ha la stalla aziendale, ma non ne capiscono l’importanza e si fidano ciecamente della certificazione.
La triste storia del figlio allevatore-operaio, purtroppo è comune nella società moderna. Nell’indifferenza generale si abbandonano attività che dovrebbero essere pilastri di una comunità sana.
Sul biologico, lei con me sfonda porte aperte. Condivido tutti i suoi ragionamenti. Non aggiungo altro, perché altrimenti rischierei di intasare il bel sito di Masini.
intasatelo pure, se le discussioni sono interessanti come questa mi fa solo piacere.
ps. Una stalla la metterei su anche domattina, se farlo in questo paese costasse meno che mettere su l’harem di un califfo…
Giordano
Mio padre mi ha sempre detto che per prendere la decisione di dismettere la stalla occorre non sapere che ci vorrà una generazione per rifarla