L’Europa delle regolamentazioni preventive fa un altro pastrocchio. Il caso della medicina “naturale”
Libertiamo – 09/05/2011
Sarà capitato a molti, negli ultimi giorni, di imbattersi sul web in appelli come questo contro la nuova direttiva europea che mette dei paletti alla commercializzazione dei “medicinali vegetali tradizionali”, imponendo, secondo i promotori degli appelli,
barriere altissime a qualunque rimedio a base di erbe che non sia presente sul mercato da almeno 30 anni, incluse in teoria tutte le medicine tradizionali cinesi, ayurvediche e africane.
Altri, come il farmacologo Silvio Garattini, plaudono all’iniziativa dell’UE, che verrebbe incontro all’esigenza di fornire adeguate garanzie agli utenti sulla sicurezza dei medicinali:
Non si comprende perché per i farmaci sia necessaria una procedura di studi, analisi, approfondimenti e autorizzazioni, mentre i nuovi prodotti della medicina alternativa si possono mettere in commercio senza che vi sia nessuna approvazione. Nel caso dei rimedi omeopatici sappiamo che non contengono nulla, e quindi mi limito a contestare il fatto che siano a carico del servizio sanitario nazionale. Ma nel caso delle erbe medicinali, tutto ciò che serve per una terapia deve essere trattato nello stesso modo: è necessaria un’autorità regolatoria che dia un’approvazione.
Ma la lettura del testo della direttiva lascia molti dubbi proprio sulla validità dei criteri utilizzati (“registrazione semplificata”) per ammettere la vendita dei medicinali “naturali”, proprio perché sono molto diversi da quelli che vengono imposti ai farmaci: in particolare, il prodotto deve dimostrare
di non essere nocivo nelle condizioni d’uso indicate e i suoi effetti farmacologici o la sua efficacia risultano verosimili in base all’esperienza e all’impiego di lunga data
Non c’è molto di scientifico nel concetto di “verosimiglianza”. In poche parole, la nuova direttiva autorizza la commercializzazione di quei prodotti, i quali potranno godere della denominazione di “medicinali”, che verosimilmente (pare, si dice, me l’ha detto mio cugino) fanno bene per questo o quel malanno. L’unica cosa che si richiede è di dimostrare che non facciano male. Un po’ pochino, a ben vedere, soprattutto in confronto con le verifiche richieste ai farmaci, che devono dimostrare proprio di essere efficaci per essere messi sul mercato.
D’altra parte è ragionevole l’obiezione di chi rivendica il diritto di curarsi come meglio crede, secondo le proprie tradizioni o secondo i propri convincimenti, senza che un’autorità pubblica venga a mettere il becco nel cassetto del proprio comodino. Ed oltretutto c’è un passaggio dal vago sapore protezionistico (che novità…) che pretenderebbe che l’uso medicinale di un determinato preparato venga preso in considerazione solo se il prodotto è stato utilizzato per un certo periodo di tempo in Europa (probabilmente è questo il punto che allarma di più i produttori di medicinali tradizionali cinesi o africani).
Il problema, come sempre, è sulle denominazioni. Infatti nulla vieta di vendere un preparato che non superi un esame tanto blando. Basta non venderlo come medicinale, ma come alimento. Non pare che vi sia il rischio che qualche prodotto della medicina tradizionale non si trovi più, ma semplicemente che non possa chiamarsi più “medicina”. In realtà i produttori di medicinali tradizionali vorrebbero godere della rendita del lavoro di altri, proprio perché la credibilità di un prodotto venduto come medicinale è il frutto del lavoro e degli investimenti di quelle famigerate “multinazionali” che per poter vendere una pasticca devono (orrore!) dimostrare che faccia anche bene.
Il buon senso vorrebbe doveri uguali per tutti, ed è preoccupante quindi che l’Unione Europea stabilisca criteri diversi e una diversa discrezionalità per denominazioni analoghe. E’ sufficiente dare un’occhiata alla direttiva per riconoscere che è solo un maldestro compromesso tra contrapposte spinte di carattere lobbistico, e che sarebbe stato molto più sensato consentire la vendita di qualsiasi prodotto, preparato in qualsiasi maniera, avendo però la delicatezza di non pretendere di scriverci sopra la parola “medicina”, almeno finché ad altri l’impiego di questa parola costerà anni di ricerca e investimenti più che considerevoli.
Dal principio di precauzione si passa al concetto di verosimiglianza….eppur si muove!