Minima lavorazione, massimo costo
- Post inevitabilmente tecnico, spero non troppo.
Na minha fazenda já faz mais de 30 anos que não revolvemos o solo dessa maneira e usamos o sistema de plantio direto na palha. A cada ano a produtividade está aumentando e a quantidade de CO² está diminuindo.
nella mia azienda è già più di trent’anni che non rivoltiamo più la terra in questo modo e usiamo il sistema della semina diretta su sodo. Ogni anno la produttività aumenta e la quantità di CO2 sta diminuendo.
Mi è tornato in mente questo commento che avevo letto qualche tempo fa in un video su Youtube che mostrava una prova in campo di una aratro polivomere, perché ho letto questa notizia sull’Informatore Agrario in cui si racconta del sostegno all’agricoltura conservativa (semina diretta e minima lavorazione) in Lombardia e Veneto. La prima domanda che viene spontanea, almeno a me, è: per quale motivo dobbiamo finanziare ciò che agli agricoltori converrebbe fare comunque?
Cercherò di spiegare per quale ragione ritengo questo tipo di interventi di sostegno sbagliati e sostanzialmente controproducenti.
Dunque, la semina su sodo è una tecnica che prevede, attraverso l’uso di seminatrici particolari che non mi metterò a descrivere in questa sede, di seminare senza effettuare nessuna preparazione del terreno, direttamente sui residui della coltura precedente. La minima lavorazione è quella che evita l’aratura e la ripuntatura profonda effettuando solo una leggera lavorazione superficiale prima della semina.
L’agricoltore brasiliano che commentava il video usa queste tecniche perché gli conviene (minori costi), qui da noi queste tecniche vengono incentivate perché si ritiene che portino benefici per l’ambiente limitando l’erosione del suolo.
Questo a me sembra uno dei casi in cui un concetto viene universalizzato e assunto a dogma e come tale ustato come alibi per politiche di spesa. E’ vero che limitare la lavorazione del terreno riduce l’erosione del terreno? Chiunque abbia un po’ di pratica risponderebbe che in qualche caso è vero, in qualche altro no. Per esempio ci sono terreni, come quelli argillosi tenaci, soprattutto collinari, in cui la lavorazione profonda assicura drenaggio al suolo evitando fenomeni di ruscellamento che sono anch’essi erosivi. Chi conosce le crete senesi sa bene che smettere di lavorare un terreno è la maniera migliore per trasformarlo, in pochi anni, in un calanco. Non si possono applicare a questo, come ad altri territori i risultati di ricerche effettuate nel ventoso Midwest americano, dove è il vento la principale causa di erosione, e dove quindi meno terra si muove meno terra vola via.
Però l’incentivo viene dato a tutti (certo, si dirà, non ci possiamo mica mettere a controllare tutti i terreni), a prescindere da quale sia la natura del terreno che ne beneficerà. E’ una buona politica ambientale? .
Allo stesso modo e per le stesse ragioni, l’erogazione del contributo prevede un impegno quinquennale all’adozione di quella pratica. E anche qui chi ha un minimo d’esperienza storcerebbe il naso: mettiamo il caso che io semini mais alternato ad un cereale a paglia. Può succedere, e spesso succede, che quando si raccoglie il mais il terreno sia bagnato, e alla fine risulti eccessivamente calpestato da mezzi pesanti (trebbie, trattori con rimorchi carichi, ecc.). A quel punto lavorare il terreno in profondità diviene indispensabile per far riacquistare la struttura al terreno, danneggiata dal calpestamento, e drenarlo adeguatamente. Però non posso, c’è il contributo. Mi toccherà quindi continuare a seminare per cinque anni su un terreno la cui capacità produttiva è compromessa.
Quel che voglio dire in sostanza è che ogni terreno e ogni annata agraria ha le sue caratteristiche e che questo rende il lavoro dell’agricoltore necessariamente molto flessibile. E non può essere certo altrettanto flessibile un bando per l’erogazione di un contributo regionale.
Allora, dato che è effettivamente vero che la semina su sodo e la minima lavorazione possono essere effettivamente pratiche agricole convenienti, perché non lasciamo che gli agricoltori decidano autonomamente quando utilizzarle? Perché dobbiamo incentivare gli agricoltori a non prendersi più cura dei loro terreni, ma ad aspettare sempre e comunque il bando più remunerativo?
Mi sembra sempre più valido quel che scrisse tempo fa James Bovard:
L’effetto principale dei programmi agricoli federali [americani, in questo caso – NdLVdS] è quello di costringere gli agricoltori a fare in maniera inefficiente ciò che farebbero in maniera più che efficiente senza sovvenzioni.
Non e’ troppo tecnico, si capisce benissimo!
Grazie
Buon articolo, anche per me.
@Masini
mi permetto di fare alcune osservazioni opinabili e personali a questo suo passo dell’articolo
“A quel punto lavorare il terreno in profondità diviene indispensabile per far riacquistare la struttura al terreno, danneggiata dal calpestamento, e drenarlo adeguatamente. Però non posso, c’è il contributo. Mi toccherà quindi continuare a seminare per cinque anni su un terreno la cui capacità produttiva è compromessa.”
sia il bando della regione veneto, che quello della lombardia prevedono:
” in caso di condizioni pedoclimatiche particolarmente sfavorevoli (anossia radicale, eccessivo
compattamento del suolo o evidenti fenomeni di ristagno) è concesso il ricorso a tecniche di non
lavorazione profonda mediante l’uso di decompattatori o ripuntatori”
“in casi giustificati da condizioni pedoclimatiche particolarmente sfavorevoli (presenza di anossia
radicale, eccessivo compattamento del suolo o evidenti fenomeni di ristagno) e preliminarmente
comunicati dall’agricoltore e autorizzati da Avepa, che ne dà conoscenza agli Uffici regionali,
possono essere adottate tecniche di non lavorazione profonda mediante l’uso di decompattatori”
Detto questo vorrei aggiungere alcune cose : nella mia regione (Piemonte)non esistono misure specifiche
simili a quelle venete e lombarde.di conseguenza quelle tecniche le sperimento e le attuo senza incentivi specifici. con meno contributo e più libertà di azione..Mi avrebbe fatto comodo avere è piu conoscenza e informazione..ma quello che serve veramente ,è la possibilità di provare sui propi terreni.Solo toccando con mano si incomincia a capire..il vantaggio di rotazione,no till e copertura vegetale per l’agricoltore e per l’ambiente( minore dilavamento / asportazione di terreno e nutrienti,aumento della sostanza organica,migliore controllo di infestanti con meno prodotti)
Il problema che lei evidenzia
può capitare nelle colture a raccolta autunnale ( es mais , soia )il primo anno ,perchè il terreno non è ancora assodato ..ma già dal secondo anno la portanza del terreno è impressionante ,trebbi con le gomme a fianco di chi, nel convenzionale trebbia ,con cingoli facendo ormaie ,stesso discorso per trattamenti ,concimazioni etc..cosa succeda dopo negli anni sucessivi..non lo so… gli appezzamenti che sono da piu anni a sodo sono al quarto anno quest’anno.Non avendo obbligo di continuare a fare sodo lo farò se lo ritengo opportuno ,e se mi sembra necessario ripuntare non ho ncessità di dover farmelo certificare..è una libertà che mi piace,a cui potrei rinunciare a rischio coperto conl’appoggio di un tecnico preparato.non avendo ne l’uno ne l’altro faccio di testa mia se sbaglio ci perdo se ci indovino sono fortunato..
Non è una tecnica facile , e come lei sottolinea giustamente, dipende dalla situazione..alle volte però la mancanza di tempo o l’obbligo ( legato all’incentivo)ti costringono a fare cose che per come siamo abituati a ragionare e per l’esperienza che abbiamo ,anche se altri all estero le fanno ,ci sembrano assurde,, poi invece funzionano…ma lo scopri dopo e solo confrontando appezzamenti coltivati in no till,rotazione e copertura permanente con appezzamneti adiacenti coltivati in convenzionale.. Legare queste pratiche al contributo pubblico e conseguente burocrazia può essere fastidioso..specialemnte se a verificare, se hai rispettato il disciplinare ,ti capita uno che non ha esperienza ( essendo una cosa nuova per forza di cose vi è poca esperienza/competenza..)e alla fine ti sanziona per motivi puramente burocratici..perchè deve pur dimostrare che il suo lavoro lo ha svolto..
Non so come vada in Veneto e in Lombardia, ho letto i loro regolamenti..traspare una certa competenza ,non saprei quanto dovuta a esperienza e quanto a informazioni raccolte da chi applica queste tecniche ,in altri contesti…L’elasticità è importante ,si può avere ,se vi è un collegamento tra chi applica le tecniche e un tecnico preparato, che si assuma la responsabilita di eventuali deroghe necessarie..nel caso non fossero sufficienti le opzioni previste dai regolamenti..A mio parere in questo modo ,la cosa dovrebbe funzionare..soprattutto se il tecnico competente si prende le sue responsabilità e l’agricoltore non è de coccio.(a volte lo siamo)..in conclusione servirebbero, , agricoltori e tecnici preparati ( che si pagano con parte degli incentivi), che avremo se le tecniche le sperimentiamo in loco e le mettiamo a punto(il classico cane che si morde la coda )perchè SONO TECNICHE DA METTER A PUNTO IN LOCO .e senza incentivi che coprano i minori introiti e maggiori costi che inizialmente possono verificarsi ,nessuno si muoverebbe..
il rischio che in questo contesto si inseriscano i soliti furbi a caccia di contributi ,è indubbio..sta alla regioni, ai tecnici ,agli agricoltori dimostrare serietà e darsi strumenti affinchè questo non accada..
Agli agricoltori non conviene aderire a queste misure solo per il contributo ,passano i 5 anni ,non imparano niente e sono daccapo..magari a rodersi il fegato perchè il vicino riesce ad avere raccolti migliori dei loro ,con meno spese.. non sempre è solo fortuna ..aiutati che il ciel ti aiuta…il colmo sarebbe ritrovarsi a dover coltivare in quel modo per obbligo senza incentivo senza aver imparato a farlo e perderci..cosa che sta succedendo ad alcuni con gli obblighi derivanti dalla direttiva nitrati..potrebbe succedere con la nuova direttiva sui prodotti fitosanitari e con la nuova pac..
@franco: le sue osservazioni sono corrette, ma mi rafforzano ancor di più nell’idea che l’incentivo possa finire per incentivare pratiche scorrette, oltre arconsolidare l’abitudine, ormai più che radicata, che per fare un piano colturale sia sufficiente guardare i bandi dei PSR più che basarsi sulle proprie competenze e la propria esperienza.
Ridurre il margine di rischio in qualsiasi attività imprenditoriale non giova all’attività stessa, e standardizzare ciò che non può essere standardizzato può recare giovamenti in un territorio, e favorire forme di “parassitismo” in altri.
D’altronde lei stesso dice “il rischio che in questo contesto si inseriscano i soliti furbi a caccia di contributi ,è indubbio..sta alla regioni, ai tecnici ,agli agricoltori dimostrare serietà e darsi strumenti affinchè questo non accada”
però puntualmente è ciò che accade, per cui forse non è più il caso di prendersela con la “natura umana” o con i vizi italici, quanto piuttosto prendere atto che gli imprenditori rispondono agli stimoli che incontrano sulla loro strada, e se determinate politiche non portano i risultati sperati, la colpa è delle politiche stesse, piuttosto che degli imprenditori che non ne hanno capito il senso profondo.
Ed è assolutamente vero che la nuova PAC rischia di portarci tragicamente sulla stessa strada, se è vero (ne ho parlato nell’ultimo post https://lavalledelsiele.com/2011/05/26/politica-agricola-comune-di-male-in-peggio/) che anche parte degli aiuti diretti verranno condizionati all’adozione di determinate pratiche agricole. Io continuo a dire che abbiamo bisogno di maggiore libertà (anche di rischiare) piuttosto che di politiche che aumentano il potere di intermediazione e di intervento dei soliti noti nelle nostre aziende.