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Il mio tema della maturità (per Chicago Blog)

25 giugno 2011

Chicago Blog – 25/06/2011

  • Carlo Stagnaro ha chiesto agli autori di Chicago Blog di svolgere alcuni dei temi della maturità 2011. A me è toccata la traccia di ambito socio-economico. Qui la traccia, qui gli altri “maturandi”.

Se è vero che siamo quello che mangiamo, allora mi pare che siamo molto fortunati, e anche un po’ fessi. Infatti mangiamo tanto, ma proprio un sacco, senza neanche spendere troppi euri, e a quel che pare non siamo nemmeno soddisfatti. La televisione dice sempre che mangiamo male, e lo dice anche Massimo Volpe, presidente della Siprec, e che quindi la salute peggiora.

Ma a me mi sa che Massimo Volpe non ha mai vissuto in campagna ai tempi che ci viveva il mio nonno, il quale (mio nonno) mi racconta che ai suoi tempi si mangiava come si deve solo tre o quattro volte all’anno e non di più, per Natale, per la trebbiatura e poi qualche battesimo o matrimonio c’era sempre, e per il resto dell’anno si lavorava e si faceva la fame “co’ le pertiche” (come dice lui) e le donne facevano tanti figli perché parecchi morivano.

Allora si sta peggio oggi che tutt’al più rischiamo che ci viene l’infarto perché mangiamo troppo e facciamo la vita sedentaria? Infatti quando mio nonno sente queste cose alla TV si arrabbia e dice certe parole che non posso scrivere qui sul tema della maturità. Massimo Volpe dice pure che trascuriamo la dieta mediterranea, ma non è vero: infatti qualche tempo fa abbiamo portato i nonni a mangiare in un ristorante bellissimo dove si mangiavano i prodotti tipici e il nonno si è arrabbiato un’altra volta, perché gli hanno portato le stesse cose che mangiava a casa cinquant’anni fa e gliele hanno fatte pagare pure tanto, e poi a lui non gli piacciono i piatti grandi con poca roba dentro, e tutta decorata coi ghirigori di sughetto. Dice che se di un piatto si vede il fondo allora è una fregatura, mentre invece a casa la nonna gli prepara certi piatti di pasta che per tenerli su ci vuole lo “stollo”, che poi sarebbe il palo che si usava una volta per reggere il pagliaio.

Ma adesso non c’è più pericolo, perché la dieta mediterranea è stata dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco, così almeno fa la fine di Pompei dove siamo stati in gita l’anno scorso, che pure quella è Patrimonio dell’Umanità, la professoressa dice che è di tutti, cioè che è un bene comune e a me mi sa che è proprio per questo che casca a pezzi, perché se è di tutti allora nessuno se ne cura.

Poi c’è Carlo Petrini che dice una cosa che non mi riesce proprio di capire, e pensavo addirittura che nella traccia del tema c’era un errore di stampa, ma la professoressa dice di no, che c’è proprio scritto così: “Se il cibo è una merce non importa se lo sprechiamo”. Io sono giovane e forse devo ancora studiare, ma a me mi sembra che se una cosa è una merce allora è proprio la volta che non la sprechiamo, e tutto questo filosofeggiare sulla differenza tra “valore” e “prezzo” non è che abbia poi tanto senso.

Infatti pure ai tempi del nonno il cibo era una merce, eccome! Solo che era una merce che costava molto di più, forse perché ce n’era molta di meno (bei tempi?) e infatti con il raccolto venduto di un anno bene o male ci campava una famiglia numerosa di contadini e pure quella del padrone, con cui si faceva a mezzo, e se qualche contadino veniva beccato a metter via qualche sacco di grano di nascosto rischiava di dover fare San Martino e andarsene via. Ma in fondo io credo che Petrini è solo un gran furbone che lo sa meglio di tutti che il cibo è una merce, e che sa pure farsela pagare ben cara.

Su una cosa però sono d’accordo con la traccia del tema: non si deve mangiare quando si sta al computer: infatti l’altro giorno mi si è rovesciato un bicchiere di Coca Cola (che è una merce che vale poco) sul computer portatile di mamma (che è una merce che vale tantissimo), e sono quasi sicuro di non aver fatto proprio un grande affare.

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  1. Alberto Guidorzi permalink
    25 giugno 2011 15:34

    Per le novelle spose, la preparazione della polenta era, come la regolarità della sfoglia per le tagliatelle, una delle prove che la suocera e le altre donne più anziane della famiglia tenevano maggiormente in considerazione. Nelle famiglie contadine vi era sempre una donna con il compito di fare i lavori in corte e di preparare i pasti, la “rasdora” o a turno le altre donne. Il pasto della sera aveva sempre come base la polenta, come pure la colazione del mattino. Verso l’imbrunire si metteva sul fuoco la pentola di rame stagnato, “la stagnàda ad la pulénta”, piena d’acqua. Il nome della pentola, sempre di rame, derivava dal fatto che l’interno dei recipienti di rame, in cui si cucinavano certi cibi, erano normalmente rivestiti da un sottile strato di stagno. Periodicamente questo rivestimento era rifatto da artigiani, “i stagnar o stagnin”, che andavano alle case per raccogliere pentolame, “da stagnàr, da métrac na broca o na pèsa” (da stagnare o tapparne i buchi con sovrapposizione di pezze fissate da chiodi di rame). La funzione dello stagno era quella di preservare i cibi da sostanze tossiche che certi ingredienti del cucinare o alimenti potevano formare con il rame durante la cottura. Si poteva evitare l’inconveniente anche deponendovi un pezzo di ferro, cosa che si faceva nel paiolo di rame, quando si concentrava il mosto d’uva. Tuttavia, non era necessario che la pentola per la polenta fosse stagnata, in quanto non vi erano possibilità di reazioni chimiche indesiderate e la crosta, che si formava sulla parete interna, la preservava.
    La polenta si preparava o sul fuoco vivo del camino, appoggiando la pentola su un “treppiede” o appendendola ad una catena, oppure sulla stufa a legna (per chi l’aveva…), previo spostamento di un numero di cerchi sufficiente ad incastrarne il fondo. In ogni caso, la pentola era a diretto contatto col fuoco e lo sfavillare della fiamma non distribuiva un calore uniforme anche perché il combustibile usato era dei più vari e facilmente infiammabili ”stopii, sterp, brusculìn, gustòn, sciansìn, stlin ecc.”(stoppie, sterpi, rami sottili, tutoli, ritagli di rami ecc.). Fare la polenta significava mescolare continuamente la poltiglia contenuta nella pentola, al fine di uniformare la distribuzione del calore per impedire che l’impasto prendesse “al cutin”, ossia il sapore di bruciato (i chimici chiamano questo “reazione di Maillard” ed è quella che si cerca di far avvenire sulla crosta del pane o dei dolci durante la cottura). Si rimestava con un bastone particolare, lungo 70-80 centimetri, “la steca d’la pulenta”, tondo nell’impugnatura e appiattito nella parte che si immergeva. Noi ragazzi lo conoscevamo bene perché era l’arnese più a portata di mano di nonne e di mamme per raggiungere le nostre gambe o le nostre spalle quando combinavamo qualche guaio o davamo fastidio. Per una donna che non aveva altro aiuto in casa o che era stata tutta la giornata a zappare, preparare la polenta era una fatica supplementare non di poco conto, perché si partiva sempre da camino spento e spesso da combustibile scadente. Mia nonna raccontava che la “Barnarda”, che era stata la balia di mio padre, la sera, dopo aver lavorato in campagna, ritornava a casa con in testa un grosso mazzo di sterpi secchi, raccolti sulla strada del ritorno, per cuocere la polenta della sera. Era tale la nuova fatica che essa si doveva sobbarcare in fine giornata, che spesso usciva con l’esclamazione: “piutòst ad far la pulénta a farés un fiol” (piuttosto che fare la polenta farei un figlio). Una volta cotta, la polenta si versava fumante su, ”al tulér dla pulénta”, altro utensile di cucina pressoché scomparso, e consistente in un tagliere circolare di diametro più o meno grande, ma sufficiente per la polenta della famiglia, ”più granda l’era la famèa, più grand l’era al tulér” (più grande era la famiglia, più grande era il tagliere). Il versamento della polenta su quest’ultimo presupponeva una certa maestria in quanto il paiolo, con una mossa rapida delle braccia della massaia, doveva svuotarsi di tutto il contenuto e occupare esattamente il centro dal “tuler”. Guai alla donna che doveva rimettersi nel versare la polenta o la faceva debordare dal “tuler”. A dire il vero, quando si versava la polenta vi era pronto qualcuno che con una specie di piccola spatola in legno bagnata,“la paca ad la pulénta”, ne comprimeva i contorni e ne controllava l’allargamento (anche questo arnese è ricordato dai ragazzi del tempo come strumento di battiture punitive…). Appena versata, la polenta sprigionava una nuvola di vapore che spandeva il suo odore in tutta la stanza e rinvigoriva i sintomi della fame, già di per sé grande. Tutti afferravano il piatto e lo avvicinavano alla “rasdòra” che procedeva alla distribuzione, iniziando sempre dai più anziani. Il taglio delle fette era fatto con il “refe” cioè un filo ben ritorto e resistente di canapa che, tirato ai due estremi, affondava nella polenta e ne tagliava una fetta. Il “refe” assieme alla “steca” e alla “paca” era normalmente appeso ad un chiodo sopra la stufa o sopra il camino. Il companatico, anche se in verità si dovrebbe dire “compolentatico”, poteva essere un pezzo di pancetta, oppure lardo battuto, una fetta di salame, un pezzo di formaggio fatto in casa, o, nei casi più disgraziati, solo radicchi conditi con tanto aceto e poco olio. A fine pasto, e solo nelle famiglie che potevano permetterselo, era concesso un pezzo di pane da mangiarsi con l’ultimo boccone di companatico o addirittura senza accompagnamento… come delizia finale. Al mattino seguente, la “stagnada” della polenta era oggetto di pulizia, cioè si toglieva la crosta rimasta aderente alle pareti e si procedeva alla lucidatura dell’interno, “a sguràr la stagnàda”, con un batuffolo di cascame, sabbia (il detersivo del tempo) e tanto “olio di gomito”. Le croste della polenta che si staccavano non erano buttate, ma costituivano ingrediente “dla zota”, cioè dell’intruglio di elementi vari destinati al maiale, tuttavia spesso quest’ultimo trovava concorrenti nei ragazzi o nelle donne stesse che pulivano la pentola.. Gli stuzzichini serviti ora da aperitivo e fatti con farina di mais, non sono altro che una copiatura di un’usanza antica, ma con l’aggiunta di grassi. Per i ragazzi la polenta poteva essere accompagnata da conserva di prugna fatta in casa, da vino cotto, ma soprattutto dal latte.
    La polenta che si faceva la sera doveva servire anche per la colazione della mattina, che spesso avveniva dopo aver già lavorato un po’ nei campi. Ecco allora che a fine cena la polenta era tagliata totalmente a fette abbastanza simili, disposte distanziate in modo che durante la notte facessero crosta e coperte con un canovaccio. La mattina la polenta si mangiava arrostita sulle braci del camino o sui cerchi della stufa a legna. A complemento della colazione si friggeva un uovo, al massimo due, per tutta la famiglia, oppure della cipolla passata lentamente con strutto e aceto e “tuti i puciàva in cal tigin” (tutti intingevano la polenta nello stesso tegame). Più della quantità importante era il sapore. Il pasto di mezzogiorno, il più abbondante, era costituito da minestra, “la pasta suta la sfava sol na volta a la smana” (la pasta asciutta si faceva solo una volta alla settimana) e quasi sempre di venerdì perché si condiva con le sardelle, oppure da pane e qualcosa…,“pan e quel”. Il mangiar pane o polenta suddivideva, a quei tempi, le classi sociali, ed erano considerate povere quelle il cui nutrimento era basato esclusivamente sulla polenta.

    Dal mio libro “La vita nei Campi” (scusate l’autocitazione)

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