La questione della liberalizzazione dei diritti di reimpianto – Seconda parte
Analizzato che abbiamo la questione storica che origina i diritti di reimpianto, e viste le reazioni al 99 % sfavorevoli alla liberalizzazione degli stessi prevista con la nuova OCM vino a partire dal 2015 (prorogabili, e quindi sicuramente prorogati, al 2018), occupiamoci dei perche’ quasi tutto il mondo del vino e’ compatto nel dire no e perche’ invece secondo me e’ una posizione insostenibile, anacronistica e in fin dei conti completamente irrelevante rispetto ai motivi che la determinano.
Vediamo le ragioni di chi vuole continuare a mantenere il divieto di “libera crescita” (ovvero, la possibilita’ di piantare una vigna nel proprio terreno).
Innanzitutto bisogna dire che le ragioni che vengono ribadite nei comunicati non sono quelle vere. Ad esempio, il presidente della potente FederDoc Riccardo Ricci Curbastro, ci propone uno scenario apocalittico:
“Le nuove regole della nuova OCM vino, per fare qualche esempio, potrebbero portare la superficie coltivata nella Côtes-du-Rhône da 61.000 a 120.000 ettari, quella del Chianti da 17.000 a 35.000 ettari, oppure quella della Rioja da 60 mila a 350 mila ettari“
Pauroso vero? Ma praticamente impossibile. Gia’ oggi, le denominazioni che lo richiedono possono, ex dlgs 61, bloccare l’albo dei vigneti. Ad es., la DOCG Morellino di Scansano e’ chiusa dal 2000. Ovvero, anche avendo disponibilita’ di diritti di reimpianto utilizzabili per piantare un vigneto, seguendo tutte le regole dettate dal disciplinare di produzione, non posso comunque iscriverlo all’albo, ma lo devo utilizzare per altre denominazioni o Indicazioni Geografiche, “aperte”. Oggi in Maremma questo vuol dire ad es. IGT Maremma Toscana (nel futuro prossimo DOC Maremma Toscana). E’ quindi evidente che basta che il Chianti (o altri) lo voglia, nessuno potra piantare un ettaro in piu’.
Altre ragioni? Iin realta’ non ve ne sono. Ognuno parla della liberalizzazione prevista, ovviamente facendola seguire dall’aggettivo “selvaggia”, disegnando scenari di sovraproduzione, abbandono delle campagne, e catastrofi varie ma generiche. Tutto questo, insomma, per permettere al viticoltore di esercitare un diritto che e’ sancito dalla nostra Costituzione, piu’ precisamente all’ ART 41, e che recita:
Art. 41.
L’iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.
Forse un impianto di vigneto rientra nei casi in cui e’ in contrasto con la Costituzione, vediamo come. Vi sentireste meno liberi, meno sicuri o menomati nella dignita’ umana se qualcuno in qualche parte di Italia piantasse un vigneto? Credo proprio di no. E’ in contrasto con l’utilita’ sociale? Qui il discorso si fa un po “tricky”. Ogni attivita’ umana ha delle conseguenze su quello che ha intorno, e certamente ogni cosa ha delle ripercussioni sulle altre. Per esempio se incentivo il gioco del tennis, corro il rischio che il gioco del calcio sia meno importante e quindi danneggio la sua utilita’ sociale come “sport identitario nazionale”? Sicuramente dipende da quello che si intende per utilita’ sociale.
Certamente si puo’ dire che se, a causa della liberta di impresa si piantano troppi vigneti e si crea un offerta molto maggiore della domanda, questo possa causare un problema per i produttori. Ma perche’ questo dovrebbe causare un problema alla collettivita’? Certo, se la collettivita’ e’ costretta a pagare, come e’ avvenuto fino a non tanto tempo fa anche per il settore vino, le eccedenze di produzione, allora e’ un danno. Ma visto che proprio la OCM vino riconosce come tutti i contributi messi in campo per controllare l’offerta abbiano sostanzialmente fallito e si propone di abbandonare questa strada togliendo, ad es. i contribuiti per la distillazione (per i quali si spendevano fino a 400/500 milioni di euro annui), e’ chiaro che finalmente, al pari di ogni altra (o quasi…) attivita’ economica, il rischio di impresa ricade sugli imprenditori.
E’ comprensibile che non faccia piacere a nessuno immaginare migliaia di viticoltori in crisi per la sovraproduzione (tanto meno a me, che appartengo alla categoria). Ma perche’ nessuno prova ad avanzare l’idea che il viticoltore non e’ piu’ stupido (o piu’ intelligente) di un qualsiasi altro agricoltore, o piu’ in generale, di qualsiasi altro imprenditore? Perche mai dovrebbero esserci migliaia di persone pronte a piantare dei vigneti, con un impegno economico peraltro molto rilevante, in una situazione economica incerta e con prospettive di mercato difficili? Qualcuno si e’ mai chiesto perche’ non ci siano migliaia di olivicoltori, o peschicoltori, o produttori di cipolle, o di cappelli, o di fermagli per i capelli, che indiscriminatamente si gettano a valanga a produrre beni per i quali il mercato e’ gia’ saturo, sapendo di rischiare il tracollo finanziario? E perche’ non si mette un limite al numero di fabbriche per saponette che si possono stabilire in Italia o in Europa, oppure al numero di ettari di zucchine che e’ possibile coltivare?
Il trend dei vigneti, a livello Italiano, Europeo e persino mondiale, e’ quello di una riduzione delle superfici vitate, sia nei paesi dove i vigneti sono regolati (come la UE) sia nei paesi dove non esistono tetti di produzione. In Italia (dati OIV) siamo passati da un vigneto di 838.000 ettari del 2007, ad uno di 798.000 del 2010, in UE nello stesso periodo si va dai 3,839 a 3,630 Milioni di ettari, una perdita di oltre 200.000 ettari in 3 anni! A livello mondiale, e quindi compresi paesi come la Cina, il nuovo mondo, ecc., dal 2007 al 2010 la superfice e’ rimasta la stessa 7,550 Milioni di Ha, ma con un trend in diminuzione dal 2009 al 2010. Persino l’Australia, dove i diritti di reimpianto sono cosa poco comprensibile come principio, va verso una diminuzione del potenziale viticolo. E allora, dove sta tutta questa voglia di impiantare nuove vigne? Dove sono tutti questi produttori disposti ad investire milioni di euro per uve che vengono vendute a € 30 al Qle?
Ma allora, perche tutte queste alzate di scudi contro le liberalizzazioni “selvagge“? Abbiamo visto che le DOC/G in realta’ sono gia’ blindate o blindabili. Allora il problema deve stare al di fuori di esse. Qual’e’ il vino di grande, grandissimo successo che oggi tira tutte le esportazioni italiane nel mondo, e che fa andare verso l’alto tutti gli indici per la gioia e l’orgoglio nazionale, a tutti i livelli dell’enoica nazione italiana? Vi dice niente il “Pinot Grigio” phenomenon? Eggia’, perche’ quando si vede che l’Italia conquista quote di mercato in UK, in USA, se si va a guardare bene e’ probabile che la “corsa” sia tirata quasi tutta da questa umile varieta’, peraltro poco riconosciuta come uva di qualita’ in Italia, dove la gente preferisce in genere altri vini. E infatti, prima di glorificare i trionfi italici sulle spalle del Pinot Grigio, forse varrebbe la pena di vedere che e’ quest’uva e’ diventata un brand, ma che questo brand per forza di cose puo’ essere riprodotto ovunque, sia fuori UE, che in paesi come la Romania o la Bulgaria, che hanno tradizione vinicola millenaria e dove si produce a meno prezzo che nel nostro paese. Vai a vedere che le liberalizzazioni selvagge non ci intacchino questo “patrimonio”. Mentre tutti ci riempiamo la bocca con il “terroir”, forse e’ un po’ scomodo vedere, e fa anche un po’ paura, che i nostri maggiori successi sono legati ad una varieta’. Proprio come per i paesi del Nuovo Mondo.
Naturalmente questo vale anche per tutte le altre, molte, produzioni non qualificate, che se la giocano sul mercato mondiale solo per il prezzo e poco piu’. In piu’ mettiamoci anche il fatto che in molti casi probabilmente i diritti di reimpianto rappresentano una voce di bilancio non trascurabile (pensate ad avere in portafoglio 1000 ettari di diritti caricati a blancio a valore € 10.000 ad ettaro e che diventeranno a valore zero con la fine del regime) e che per qualcuno val la pena di difendere.
Tutto chiaro? Direi di no, ma forse si comincia ad intravedere qualcosa dietro il velo delle dichiarazioni di facciata, delle vibrate lettere di protesta contro i selvaggi liberalizzatori, ecc. Per me pero’ una cosa e’ chiara, la liberta’ di impresa, la concorrenza, la chiarezza e la trasparenza non sono valori sacrificabili, e spesso chi ne soffre alla fine e’ il consumatore. Alla faccia dell’utilita’ sociale.
Bene ottima riflessione, ho letto anche la prima parte. Queste considerazioni mancano di alcune informazioni giuridiche di base per capire il come e perché della chiusura degli albi a DO ma, con il buon senso, arrivano a conclusioni logiche e ragionevoli.
Non preoccuparti Gianpaolo, tra le organizzazioni che non hai citato ce ne una che da sempre combatte le limitazioni a produrre e quindi i diritti e le quote ed è a favore dell’autogoverno dei produttori.
Tra gli altri argomenti che ti suggerisco nel cercare di capire l’inutile guerra a favore dei diritti di reimpianto primo tra tutti il populismo, visto che il vino è argomento di grande interesse popolare, poi l’ignoranza giuridica di chi si occupa di vino ad alti livelli, poi ancora l’interesse di chi pensa che ridiscutere uno degli accordi della recente riforma possa permettere di buttare all’aria l’accordo chiuso e permettere di riaprire il negoziato, magari scongiurando così la fine degli aiuti alla distillazione di crisi.
Spero che il Gruppo di alto livello sulla questione, istituito dal Commissario Ciolos a Bruxelles e che inizierà a riunirsi il prossimo 16 aprile, possa portare luce sull’ombra gettata dai 14 Paesi membri che hanno firmato la lettera per il mantenimento divieto di impianto di nuovi vigneti in Europa.
saluti