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Le contraddizioni della nuova PAC – 1: il ‘Greening’

15 ottobre 2011

Chicago Blog – 15/11/2011

Il 12 ottobre la Commissione Europea ha ufficialmente presentato il pacchetto di iniziative volte a riformare la Politica Agricola Comune (PAC) da qui al 2014, quando la riforma entrerà in vigore. E’ una serie di misure molto complesse, che merita migliore approfondimento. Intanto vorrei dedicare alcuni brevi post alle contraddizioni più evidenti della proposta appena approvata, seguendo il canovaccio  dell’efficace sintesi riportata sul periodico online “Agronotizie”.

Prima puntata: il “Greening”

Il 30% dei sostegni agli agricoltori sarà condizionato al cosiddetto ‘Greening‘. Chi non si conformerà alle misure previste per garantire la sostenibilità ecologica della produzione agricola perderà dunque questa parte di finanziamenti. Non solo: potrebbe rischiare sanzioni aggiuntive. Tre le pratiche ambientali obbligatorie: diversificare le coltivazioni (un minimo di tre colture); prevedere pascoli permanenti; dedicare il 7% del terreno a fini ecologici. Con quest’ultima misura, si intendono tutte le forme, anche non direttamente produttive, per mantenere la terra fertile, ad esempio piantare alberi per contrastare l’erosione dei suoli.

Anche se non è un tema molto sentito in Italia, nel resto del continente il fatto che i contribuenti paghino di tasca loro parte del reddito degli agricoltori non è sempre visto di buon occhio. Per questa ragione, già da un decennio circa, una parte considerevole degli aiuti è destinata a finanziare la produzione di “public goods“, ovvero di quei beni che secondo la teoria economica non vengono remunerati adeguatamente dal mercato ma dai quali la collettività trarrebbero comunque un beneficio: salvaguardia ambientale, lotta ai cambiamenti climatici, tutela del paesaggio rurale e della biodiversità, sopravvivenza della piccola impresa agricola.

Quindi la PAC è stata, da tempo, suddivisa in due pilastri: il primo è quello degli aiuti diretti, il secondo è quello dei cosiddetti “aiuti allo sviluppo”, essenzialmente destinato a remunerare i “public goods“, attraverso i Piani di Sviluppo Rurale elaborati, in Italia, dalle regioni: sostegno all’agricoltura biologica e ad altre pratiche agricole ritenute in qualche misura ecosostenibili, finanziamenti a fondo perduto alle imprese (ma non solo alle imprese, anche gli enti locali ne possono beneficiare e ne hanno beneficiato a piene mani) per progetti che contengono una qualche spruzzata di verde, almeno nelle intenzioni dichiarate. La novità è che oggi questo sembra non essere più sufficiente, ed anche il 30% degli aiuti diretti sarà condizionato all’adozione di pratiche ritenute ecosostenibili: di più, chi dovesse scegliere di fare diversamente rischierà delle sanzioni.

Il risultato di una misura del genere, facilmente prevedibile, sarà una contrazione della produzione in un momento in cui i prezzi delle materie prime indicano che l’offerta di cibo non è adeguata alla domanda. Un esempio: immaginiamo una zona vocata alla coltivazione del mais, in cui un ettaro di terreno produce in media 150 quintali per ettaro di granella, e nella quale il mais viene alternato, ogni due anni, con una coltura miglioratrice. Imporre una rotazione triennale di tre colture differenti siginfica dimezzare la produttività di quel terreno: laddove prima in tre anni un ettaro rendeva 300 quintali di granella di mais, con la nuova PAC non potrà rendere più di 150 quintali, la produzione di un anno. E un effetto analogo si avrebbe se la diversificazione tra le colture venisse imposta non nel tempo, ma nello spazio, costringendo aziende che non hanno nessuna convenienza a farlo a ridurre la superficie dedicata alla coltura principale per fare spazio ad altre.

A questo va aggiunto il 7 percento di superficie aziendale da dedicare a non meglio specificati “fini ecologici”, anche slegati dalla produzione, misura questa che sembra voler sostituire il vecchio “set-aside” cioè la percentuale di superficie aziendale che doveva essere obbligatoriamente lasciata incolta in un epoca, gli anni ’90, in cui la riduzione della produzione agricola europea era l’obiettivo principale della PAC. Ma allora l’Europa affogava nelle eccedenze, i prezzi globali delle soft commodities precipitavano, e un obbiettivo del genere poteva avere un senso. Oggi che senso ha?

Certo, molte aziende già diversificano la produzione di loro iniziativa (la diversificazione in genere riduce l’esposizione alla volatilità dei prezzi, oltre a garantire il mantenimento della fertilità del terreno). Ma anche l’azienda portata nell’esempio pratica una forma di alternanza: due anni di mais e una di miglioratrice, magari favino o un’altra leguminosa a basso valore aggiunto, sufficiente a garantire un buon livello di sostanza organica nel terreno e un buon livello di produttività. Una misura del genere non dimezzerà la produzione europea, ovviamente, ma avrà sicuramente il suo peso.

Il cibo è per eccellenza il bene a domanda anelastica: sono necessari forti aumenti di prezzi per indurre una contrazione dei consumi. Allo stesso modo anche una lieve contrazione dell’offerta, in un momento in cui la domanda è in costante aumento, contribuisce a lanciare in alto i prezzi: nel 2010 una contrazione del 5% della produzione globale, dovuta a diversi fattori, ha fatto raddoppiare il prezzo dei cereali. Non è difficile immaginare chi ne sta pagando le conseguenze.

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8 commenti leave one →
  1. Alex permalink
    15 ottobre 2011 14:35

    Mio nonno, contadino, a me studente universitario di produzioni animali, quando gli spiegavo nel 1992 il set-aside (troppa produzione, magazzini pieni, prezzo di sostegno e di intervento ecc) mi diceva candidamente: “Non capisci niente tu e neanche quelli di Bruxelles, come fanno a darmi dei soldi per non coltivare niente?”. Aveva naturalmente ragione lui (vogliamo parlare dei premi UE per fare le stalle e poi per abbattere le vacche, i premi per impiantare vigneti e poi per estirparli). Il grado di contraddizione cui è arrivata la PAC oggi è assoluto: volgliono sostenere la competitività degli agricoltori (tra l’altro la difesa del reddito degli agricoltori è uno degli obiettivi del Trattato di Roma, e visti i dati economici di questi anni non mi pare che il risultato sia raggiunto) ma nello stesso tempo viene impedito loro di fare gli imprenditori agricoli. Per quanto riguarda l’oggetto di quesa puntata, il greening, direi che la confusione e l’incertezza (siccome è di moda usare la parola “green” la mettiamo nella PAC anche se poi non sappiamo neanche noi bene cosa significhi (tra l’altro i costi burocratici di gestione del sistema aumentano ancora) hanno per ora ottenuto almeno un obiettivo: siamo “green” dalla rabbia! Buona PAC a tutti.

  2. Vincenzo Lenucci permalink
    16 ottobre 2011 21:31

    Ottimo approfondimento e grazie dello spunto. Questa riforma andava sicuramente fatta ma non secondo le linee proposte dalla Commissione europea. Il “greening” è solo l’apice delle contraddizioni e delle misure anti-impresa che questa riforma significa per chi fa e vive di agricoltura (di agricoltura on di pagamenti diretti).

    Intanto con la riforma si dà un TAGLIO alla spesa comunitaria per l’agricoltura (e forse con il prossimo bilancio il taglio sarà anche maggiore). Ma allora, verrebbe da dire, tutti questi anni di disaccoppiamenti, politiche non distorsive (mentre negli Usa ci si orientava diversamente), abbattimenti di dazi alle frontiere e di restituzioni all’export, finanziamenti all’agricoltura ambientale etc. tutte cose che dovevano dar forza alla spesa agricola europea a cosa sono serviti? C’è sempre come un eccesso di senso di colpa a Bruxelles a spendere per per la stabilità e l’equità degli agricoltori europei … eppure ci sarebbe (c’è) scritto nei Trattati…

    Poi c’è il problema della selettività: da ora in poi i pagamenti diretti saranno riservati agli AGRICOLTORI ATTIVI. Bene, ma sapete chi sono questi agricoltori attivi? Coloro che possono dimostrare che i pagamenti di Bruxelles rappresentano almeno il 5% delle loro entrate da attività non agricole. A prescindere quindi dalle produzioni agricole che realizzano. In pratica più i pagamenti comunitari contano rispetto alle entrate complessive e più ne ho diritto. Un concetto singolare di “attivismo”. Per tacere del fatto che il rispetto di questo requisito non viene applicato a chi percepisce meno di 5 mila euro (si suppone piccole aziende). Insomma meglio rivoli di piccolissime erogazioni a tutti – anche a chi non rispetta il criterio del 5% e a chi magari la terra non la tocca nemmeno (come requisito c’è anche una manutenzione minima agronomica dei suoli) – e niente a chi magari ricava poco di pagamenti rispetto alle altre attività economiche (che magari sono solo la commercializzazione del proprio prodotto agricolo trasformato).

    Poi c’è il TAGLIO in alto dei pagamenti (si riducono i pagamenti a partire da 150 mila euro e non si eroga dai 300 mila euro in su) in maniera da penalizzare le grandi aziende; così da stangarle e non farle crescere … dovessero per caso (orrore) “fare profitto” e magari con questo dare occupazione e aumentare il valore aggiunto del Paese… giammai, meglio piccoli …

    Infine c’è appunto il “GREENING”, un capolavoro di iniquità e di misure agli antipodi della gestione agronomica (ma anche ambientale) dei terreni. Delle monocolture in successione al maggese, pratica forse secolare, è stato già scritto. Ma gli esempi di disparità di trattamento non mancano. Ad esempio, un’azienda estensiva zootecnica del nord europa con solo superfici foraggere e bestiame per avere il pagamento di greening dovrà solo non convertire i suoi prati/pascoli in seminativi (anzi è consentita una limitata possibilità di trasformarli). Un produttore di latte o di carne in Italia che utilizza mais dovrà “diversificare” inserendo altre due coltivazioni sulle medesime superfici.

    Non solo, dovrà pure realizzare il 7% di aree ecologiche. E questo dovrà farlo anche un produttore di vite o di olivi o di frutta. Ma come si fa (senza pesanti contraccolpi) a limitare del 7% la superficie in produzione di una specie arborea? od a ricavare da un frutteto od un oliveto il 7% di aree con elementi paesaggistici, fasce tampone, terrazzamenti … (questo pretende la proposta di regolamento della Commissione). Espiantiamo parte degli arboreti? Ci inventiamo o quasi elementi naturalistici? E che effetto ha tutto ciò sulla biodiversità e la tutela ambientale? non stupisce che anche gli ambientalisti contestino questa norma.

    Si apre un negoziato difficile per gli agricoltori europei in tutti i sensi. E quel che aggrava di più la posizione dell’Italia è che a tavolino si è deciso che il 7% circa dei pagamenti siano spostati a favore dei Paesi dell’Est (probabilmente anche parte delle risorse per lo sviluppo rurale). Almeno questa è la proposta: la raddrizzeremo politicamente oppure un agricoltore polacco (ricordate il dibattito sulla direttiva Bolkenstein?) vale più di un agricoltore italiano?

    L’ho fatta anche troppo lunga. Saluti a tutti gli amici di Valle del Siele

  3. Alberto Guidorzi permalink
    16 ottobre 2011 23:40

    Ormai a Bruxelles non vogliono grane: ci sono gli ecologisti e un’opinione pubblica che vuole un godimento ludico quando va in campagna, bene misure ambientali e i fiorellini per le tante “vispe terese” che vogliono vedere svolazzare le farfalle; non si vuole scatenare le ire delle associazioni agricole, bene manteniamo la loro base sociale con microaziende; si è creata una legislazione sulle sementi che da trent’anni impone regole comuni per regolamnentare la creazione varietale ed evita che proliferino i burattatori, bene, dato,però, che con l’avvento delle PGM la legislazione esistente obbligherebbea a denunciare i paesi membri recalcitranti ad adeguarsi alle leggi, si propone di rinazionalizzare la legge sementiera. E non è ancora finita…..

  4. 17 ottobre 2011 07:09

    @Vincenzo Lenucci: Però così mi anticipi gli argomenti dei prossimi post, che saranno appunto il tetto agli aiuti e l’agricoltore “attivo”… 😀

  5. Alex permalink
    17 ottobre 2011 08:51

    Non dimenticatevi, nelle prossime puntate, di parlare anche del capitolo di bilancio UE destinato alle spese di amministrazione della UE stessa 😉

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