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Ancora su Coldiretti e l’olio d’oliva

12 gennaio 2012

Torno sulla storia dell’inchiesta di Repubblica sull’olio di oliva italiano per chiarire alcuni punti della questione, o almeno del mio personalissimo e discutibilissimo punto di vista sulla medesima.

Premessa: l’indagine di Coldiretti che è stata usata da Paolo Berizzi per l’articolo di cui abbiamo parlato qualche giorno fa ha lo stesso valore scientifico della carta per avvolgere il pesce. Un’indagine è credibile se le metodologie usate sono note e riproducibili, altrimenti vale meno di zero. Roberto La Pira ci fa sapere che, avendo chiesto ad Unaprol e Coldiretti i documenti originali del laboratorio, questi sono stati rifiutati e mai resi pubblici, accampando scuse che non sarebbero servite a salvare da un brutto voto un scolaretto impreparato. Da cui ne consegue che:

  1. Repubblica non è un giornale serio. Utilizzare fonti non verificate né verificabili per diffondere notizie che hanno il sapore dell’allarme è grave e irresponsabile. Il fatto che il giornalismo italiano sia complessivamente poco credibile non consola, anzi. Tra l’altro, come abbiamo avuto più volte occasione di documentare, anche recentemente, quando si parla di agroalimentare le pérformances negative del quotidiano diretto da Ezio Mauro lasciano sbalorditi, così come lascia sbalorditi la scarsa (nulla, direi) propensione a correggere gli errori e a rettificare le notizie errate pubblicate.
  2. Coldiretti non è un’organizzazione seria, e le ragioni sono praticamente le stesse. Ora, i nostri amici con le bandierine gialle possono pensare che faccia parte dei doveri di un’organizzazione nata per tutelare interessi di parte quello di forzare la realtà per ottenere dei risultati a loro modo di vedere positivi per i loro associati (o per i loro punti vendita, che è cosa ben diversa, tra l’altro). Certo, se si ha una misera considerazione della propria credibilità. Se i centri studi di organizzazioni come Confindustria o CGIA di Mestre sono ritenuti universalmente credibili, con vantaggio delle organizzazioni stesse, mentre quelli Coldiretti suscitano per lo più ilarità o indifferenza, a rimetterci è Coldiretti stessa e la rappresentanza agricola nel suo complesso. Quando poi si forza la mano al punto da ottenere un danno per la generalità dei produttori italiani, come nel caso in questione, allora ecco che la frittata è fatta e servita.

Alla fine qualche considerazione generale. Si può ritenere in buona fede che qualsiasi prodotto italiano sia di per sé migliore dei prodotti che vengono dall’estero, ma la cosa è difficilmente dimostrabile. Ogni volta che vado in Austria mi viene da sorridere di fronte alle confezioni di pomodori coperte di bandierine bianche e rosse con la garanzia certificata che i pomodori al loro interno provengano dal paese alpino. Questo tanto per far capire come a volte il protezionismo commerciale sui prodotti agricoli può raggiungere livelli assolutamente ridicoli, che sfiorano l’abuso della credulità popolare.

L’olio di oliva italiano è di ottima qualità, ma l’olivicoltura italiana sconta un ritardo impressionante dal punto di vista dell’efficienza. Abbiamo già parlato, poco tempo fa, di come il divieto di espiantare gli oliveti tradizionali condanni gli agricoltori italiani a produrre secondo un sistema di allevamento dell’olivo che prevede lavorazioni quasi interamente manuali per 2-300 piante per ettaro, mentre ovunque nel mondo la diffusione dell’olivicoltura intensiva e superintensiva, senza pregiudicare la qualità del prodotto, porti a coltivare (meccanicamente, dalla potatura alla raccolta) fino a 1600 piante per ettaro. Non bisogna essere dei geni della matematica per quantificare il gap produttivo, dalle rese unitarie per ettaro ai costi di produzione, che scontano gli olivicoltori italiani, che infatti, oltre a produrre meno e peggio, hanno cominciato ad abbandonare all’incuria gli oliveti, per non incorrere in perdite. Forse bisognerebbe dare un’occhiatina a quanto succede nella vicina Spagna, che con in condizioni pedoclimatiche simili alle nostre e con una tradizione altrettanto degna (anche se per Coldiretti probabilmente l’olio spagnolo è spazzatura, ma sarebbe allora ancor più grave) è riuscita a diventare il primo produttore mondiale di olio di oliva, primo anche per volume di export.

Quando si osserva, con fare scandalizzato, che molti frantoi italiani usano miscelare percentuali di olio proveniente da altri paesi, sarebbe il caso di domandarsi per quale ragione l’offerta italiana di olive da olio non sia soddisfacente per la domanda, né il loro prezzo, comunque troppo basso per i costi che devono sostenere i produttori nostrani, sia competitivo rispetto al mercato globale. Qualche domanda bisognerebbe farsela, prima di sparare ai quattro venti notizie prive di fondamento sulla qualità della materia prima usata, e lanciarsi in quella che un nostro lettore, difendendo  l’operato di Coldiretti, ha entusiasticamente definitoottima azione di marketing“.

Ultimo punto, l’informazione per i consumatori. Come abbiamo già detto, le informazioni sulla provenienza dell’olio sono già obbligatorie in etichetta. Molti frantoi, è vero, giocano con le dimensioni dei caratteri, ma le informazioni già ci sono. Non è la prima volta che Coldiretti sbatte il naso su questa storia, a forza di ripetere a macchinetta il mantra della tracciabilità come panacea di tutti i mali. Era già successo ai tempi dello scandalo delle mozzarelle blu, ed era stato lo stesso La Pira a farglielo notare, anche in quell’occasione. Sarà ora di cambiare disco?

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5 commenti leave one →
  1. guido borà permalink
    12 gennaio 2012 14:32

    Ottimo articolo, davvero. chiaro ed esauriente su un settore sempre più in sofferenza. Vivo nella campagna toscana e noto con rammarico il progressivo abbandono delle olivete. Certo che avere come termine di paragone solo gli studi della CGIA di Mestre e la Confindustria (e lo sono perché almeno citano le fonti), dice molto sulla qualità della ricerca delle associazioni di categoria in Italia. (OT l’annuale classifica della CGIA sulle provincie italiane più indebitate è copia-incollata dai dati reperibili sul sito della banca d’italia sull’indebitamento delle famiglie italiane senza nemmeno un po’ di elaborazione; un’operazione del genere, come altre che in questo momento non mi sovvengono, che senso ha?). Cordialmente e buon lavoro

  2. Alberto Guidorzi permalink
    12 gennaio 2012 18:16

    Giordano,

    Se mi permetti riprendo una tua frase messa nell’articolo:

    .”…abbandonare all’incuria gli oliveti, per non incorrere in perdite.”

    per suggerire quest’aggiunta:

    ” e farli divenire uliveti biologici da cui ricavare olio biologico”,

    che non può essere altro che un un concentrato di larve della mosca dell’ulivo ed un suo “allevamento intensivo”..

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