Basta poco
Sia Stefano Feltri sul Fatto Quotidiano che Massimo Famularo su Linkiesta hanno nei giorni scorsi parlato di decrescita, prendendo spunto dall’ultimo libro di Serge Latouche, “per un’abbondanza frugale” (Bollati Boringhieri) e di un recente articolo di Maurizio Pallante, ancora sul Fatto Quotidiano. Entrambi si sono soffermati sull’aspetto “etico” della questione: chi decide cosa è giusto e cosa è sbagliato consumare? In base a quali criteri? Un sistema che concede a una casta di mandarini il privilegio di imporre consumi e stili di vita a tutti sulla base dei propri discutibili, perfettibili, arbitrari ma al tempo stesso insindacabili gusti, non è forse l’anticamera del totalitarismo? Ovviamente lo è, ed è questa forse la ragione principale per cui l’ideologia della decrescita, felice o meno, è solo una delle tante minchiate, dal sapore più che vagamente pericoloso, che vengono propagandate in un’epoca in cui si perde facilmente la misura delle coordinate dello Stato di diritto.
Ma il punto centrale della questione l’ha colto, a mio avviso, il nostro amico Antonio Pascale sul Corriere:
Non è che questa parola sta diventando una classica parola ameba? Di quelle che significano tutto e niente? In realtà decrescere è facilissimo: basta autoridursi lo stipendio. Produzione e reddito sono infatti la stessa cosa. Meno reddito, minor produzione, consumi più bassi. Ci toccherà fare un gesto coraggioso: andare dal nostro editore e chiedere di meno. Purtroppo siamo soggetti a un’equazione matematica. L’ha scritta J. M. Keynes: Y (Pil) = C (consumi) + I (investimenti) + G (spesa pubblica) + X (differenza tra esportazioni e importazioni). Se vogliamo divertirci e scrivere un po’ di formule inverse, e se assumiamo che G e X rimangano costanti, il Pil finisce per essere determinato solo da consumi e investimenti: Y = C + I. Perciò, se si riducono i consumi, il reddito si ridurrà, a meno che non aumentino gli investimenti. Ma siccome gli investimenti attuali sono guidati dalle aspettative delle imprese sui futuri profitti, e quindi su quelli che saranno i consumi futuri, una riduzione generalizzata dei consumi finirà col produrre un ristagno degli investimenti. Risultato? Crisi economica e riduzione del reddito. La questione allora andrebbe formulata con un po’ di rigore matematico: quanto siamo disposti a perdere in termini di reddito per salvare il pianeta dall’eccesso di desiderio?
Appunto, quanto? Basterebbe poco eppure si finisce sempre per trascurare, o rimuovere, questo aspetto. I modelli che trascurano il vile e noioso calcolo, ovvero la meschina realtà, funzionano sempre, ma solo nella mente di chi li genera e in quella di coloro che, numerosi, abboccano all’amo. E non è la prima volta che succede: d’altronde è lo stesso Latouche ad affermare che “la decrescita è un progetto politico di sinistra, perché si fonda su una critica radicale del liberalismo, si ricollega, denunciando l’industrialismo, all’ispirazione originaria del socialismo e mette in discussione il capitalismo secondo la più stretta ortodossia marxista“. I rieccoli.
Che c’entra Marx? Forse l’Engels del periodo luddita. A me ricordano davvero i primi socialisti, quelli che lo facevano per invidia e non erano digeribili neanche per Carletto.
Pensate se nel 1960 avessimo dato ascolto ai soloni del Club di Roma.
Non avremmo avuto la Rivoluzione Verde e molti non sarebbero nati.Qualcuno dirà sarebbe stato meglio!
Al che io rispondo che non la vogliono solo adesso che è avvenuta e ne hanno goduto i frutti, sono come quelli che non vogliono il nucleare, ma per coerenza non spengono la luce della loro casa per un periodo proporzionale a quanto consumano di elettricità vendutaci dai francesi.