Nicolas Tremonty e il protezionismo
Nicolas Sarkozy rispolvera il protezionismo, e lo fa in grandissimo stile, all’ultimo comizio di Villepinte, minacciando addirittura l’uscita unilaterale della Francia dal trattato di Schengen, se lo stesso trattato non venisse rivisto secondo i desiderata dell’inquilino pro tempore (un tempore sempre più breve, a quanto dicono i sondaggi) dell’Eliseo, attraverso un deciso giro di vite alle frontiere europee per quanto riguarda la libera circolazione di persone e merci:
“l’Europa non può essere un ventre molle, uno spazio aperto a tutti i venti. L’Europa deve tornare ad essere un ideale, una volontà, una protezione”
Sarkozy propone una copia Europea del “Buy American Act” che entro certi limiti impone alla pubblica amministrazione statunitense di rifornirsi da aziende nazionali, aggiungendovi anche una clausola a favore delle imprese medio-piccole (come se di disincentivi alla crescita non ce ne fossero già abbastanza), ed invoca, a giustificazione di questa nuova ventata di protezionismo stantìo, la solita vecchia scusa della “reciprocità”: le importazioni da paesi nei quali il costo del lavoro è più basso esporrebbero le nostre imprese a concorrenza sleale, alla quale sarebbe necessario porre rimedio attraverso maggiori dazi ed ostacoli al commercio internazionale (va dato comunque atto a Sarkozy di chiamare le cose con il loro nome, protezionismo commerciale, invece di provare a perseguire gli stessi risultati nascondendosi dietro l’esile paravento ideologico della tutela della lotta all’inquinamento derivante dal trasporto su lunghe distanze ed altre amenità del genere, come fanno in genere i sedicenti “progressisti”).
Quello che però Sarkozy dimentica (e con lui tutti gli assertori nostrani delle sue stesse teorie, da Giulio Tremonti alla Lega Nord, dalla Coldiretti al movimento dei “forconi” siciliani), è che il costo del lavoro è solo uno dei tanti “fattori di produttività” che determinano la TPF (Total Factor Productivity), l’unica unità in grado di misurare (scientificamente, non ad minchiam) la competitività di qualsiasi sistema produttivo, che si tratti di una singola impresa o di un’intera nazione. Ad esempio, sappiamo bene che un operaio agricolo costa, nell’Africa Subsahariana, molto ma molto meno di quanto non costi in Europa. Questo significa che la produttività di un azienda agricola kenyota è superiore a quella di un’azienda agricola Alsaziana? Forse, ma lo si potrebbe sostenere solo dopo aver preso in considerazione anche gli altri fattori di produttività: ad esempio sappiamo che nei paesi in via di sviluppo le perdite di prodotto lungo la filiera agricola sono molto consistenti. Da una cattiva protezione delle colture, che rimangono spesso sul campo vittime di parassiti, alla scarsità di depositi di stoccaggio adeguati e di adeguate vie di comunicazione, in grado di far raggiungere ai prodotti i loro mercati di destinazione prima del loro deperimento. Secondo la FAO queste disfunzioni sono all’origine di perdite tra il 30 e il 50% della produzione (stime spannometriche ovviamente, che vengono tirate fuori quando si tratta di promuovere terzomondismo e pauperismo a buon mercato, ma che vengono dimenticate quando si ragiona di imporre politiche che danneggerebbero le economie proprio di quei paesi).
Di più, vanno considerati gli elevatissimi costi di meccanizzazione delle linee produttive, dovuti ad evanescenti reti di distribuzione delle attrezzature, dei ricambi, del combustibile e di qualsiasi altra fonte energetica. E il livello di know how nelle imprese occidentali, frutto di una migliore diffusione dei saperi e della ricerca. In agricoltura (ma è un discorso che può essere esteso ad ogni comparto produttivo), basta paragonare la produttività media unitaria per ettaro in Europa con quella di qualsiasi altro continente, Nordamerica compreso, per farsi un’idea di quel che significa.
Con ogni probabilità, quindi, il costo del lavoro così basso è una funzione della bassa produttività degli altri fattori: se le imprese dei paesi in via di svilupppo pagassero per la loro mano d’opera salari “francesi”, andrebbero da sole fuori mercato, senza dovere aspettare le misure protezionistiche di Sarkozy. E come conteggeremmo nel calcolo della “reciprocità”, i sussidi che gli agricoltori europei percepiscono, e che gonfiano i loro redditi quasi azzerando il rischio di impresa? Ma il protezionismo è un’ottima merce da campagna elettorale, da sempre la prediletta di Monsieur le Président, insieme alla sua antica ossessione (anche questa coerentemente Tremontienne) per la speculazione finanziaria, causa prima ed unica di tutti i peccati del mondo. Da lui non ci saremmo aspettati nulla di diverso.
Viv la France!
Giordano
Il protezionismo ha ragion d’essere solo per superare un obiettivo momento di difficoltà e se questo periodo è usato per recuperare la competitività, altrimenti il protezionismo è deleterio perchè non potrà mai essere totale, da una qualche parte ti danneggia per ritorsione ed inoltre se mantenuto troppo non incentiva i recuperi perchè è più facile sedersi all’ombra o godere i benefici della protezione.
protezionismo fa rima con populismo