Al Vinitaly tutti contro la liberalizzazione dei vigneti, in nome delle rendite
Libertiamo – 27/03/2012
Il Vinitaly che domani chiuderà i battenti a Verona incorona un anno straordinario per l’export italiano di vino: più 13% rispetto all’anno precedente, con metà del fatturato all’estero che proviene dall’Unione Europea, un quarto dagli USA e con i mercati emergenti che segnano performances entusiasmanti, soprattutto la Cina dove le nostre esportazioni in bottiglia sono cresciute in un anno addirittura dell’80%. Una cornice ideale per ribadire il secco no dei produttori italiani all’ipotesi di liberalizzazione dei diritti di reimpianto dei vigneti, rassicurati in questo senso sia dal ministro delle politiche agricole Mario Catania che, ed è forse la notizia più rilevante, dal commissario europeo Dacian Ciolos, il quale ha annunciato proprio a Verona la riapertura del dossier, nonostante il Parlamento Europeo avesse già stabilito la rimozione della contingentazione delle superfici vitate già dal 2015.
Oggi, infatti, non è possibile piantare un vigneto, a meno che non si acquisti (spesso a caro prezzo) il “diritto” di farlo da un altro produttore che ha espiantato la stessa superficie. L’idea che questo sistema venga abolito ha gettato nello sconforto tanto i produttori, preoccupati di perdere quote di mercato a vantaggio di nuovi viticoltori, quanto le organizzazioni agricole, che sull’intermediazione delle compravendite dei diritti hanno costruito non poche fortune. In realtà sono ben pochi, direi nessuno, gli argomenti logici che possono essere portati a difesa di un sistema liberticida come quello dei diritti di reimpianto.
Il primo argomento, e il più abusato, è che la liberalizzazione sconvolgerebbe gli equilibri di mercato esistenti. So what? Non risulta che preoccupi nessuno quanti ettari di grano o di patate vengano seminati ogni anno nell’Unione Europea, né quanti produttori di scarpe o di caffettiere si affaccino sul mercato. Anzi, se guardiamo bene, la vite è l’unica coltura “a numero chiuso”, e francamente si stenta a comprenderne la ragione. Certo, vi diranno che il vino è un prodotto particolare che non può essere lasciato in balia del mercato, ma questo lo dicono anche i tassisti del trasporto su taxi e i farmacisti delle medicine. Si ritiene forse che il vino sia un prodotto particolare perché l’impianto di un vigneto richiede un investimento considerevole che si comincia ad ammortizzare dopo molto tempo? Anche l’olivo, se è per questo, come qualsiasi coltura arborea. Anzi, proprio per questo il timore che alla liberalizzazione degli impianti seguirebbe un’ondata forsennata di investimenti folli nel settore è destituita di fondamento, a meno che non si presuma che i viticoltori siano degli allocchi, incapaci di leggere le dinamiche del mercato se qualcuno non le interpreta per loro.
Se poi si abbandona la demagogia protezionistica e si guardano i dati, si vedrà che è vero che le superfici a vigneto sono calate in questi anni nell’Unione Europea, anche a causa del sistema dei diritti, ma che questo è avvenuto anche nelle zone del mondo in cui non esiste alcun tetto agli impianti, ed anche nella tanto detestata Australia le superfici sono stazionarie, a significare il fatto che nel mondo del vino la ricerca della qualità e non della quantità è una scelta consapevole dei produttori, non il frutto della lungimirante pianificazione dei burocrati.
Spesso si dice che la liberalizzazione farebbe saltare gli equilibri delle zone di produzione DOC e DOCG, con migliaia di ettari di nuovi vigneti che approfitterebbero della denominazione, e questo invece è clamorosamente falso. I consorzi hanno il potere di stabilire un tetto massimo alle iscrizioni di vigneti alle DOC. Ci sono zone, come quella del Morellino di Scansano, in cui le iscrizioni sono chiuse da anni: se un agricoltore pianta un vigneto in quella zona, pur producendo nell’area della DOC e secondo il disciplinare della DOC, dovrà chiamare il suo vino in un altro modo. Anche questa è una norma più che discutibile, congegnata a tutela delle rendite degli insider, ma dato che esiste almeno si smetta di dire sciocchezze.
Certo, qualche effetto la liberalizzazione lo porterebbe con sé, a cominciare da una ventata di sana concorrenza nel settore, ma a quanto si sa la concorrenza migliora sia la qualità dei prodotti che la loro accessibilità. Se questo significa che qualche produttore decotto dovrà cedere il passo a qualcun altro, magari più giovane e innovativo, beh, non credo che questo sia un problema per nessuno. D’altra parte la storia dei “supertuscans” dimostra che i grandi successi nascono proprio dalla rottura degli equilibri, al di fuori di qualsiasi contesto protetto “tradizionale” e di territorio, a meno che non si voglia far credere che il taglio bordolese e l’uso della barrique erano pratiche già diffuse nella viticoltura italiana prima dell’avvento del Sassicaia, e che la zona di Bolgheri (oggi DOCG, dato che ogni innovatore è destinato, in questo contesto, a trasformarsi presto in rentier) fosse dedicata da secoli alla coltura della vite e non al pascolo delle vacche maremmane.
C’è poi un altro aspetto che merita una riflessione, anche perché si intreccia proprio con le straordinarie performances del nostro export, e nasce da un’analisi fatta sul suo blog, tempo fa, da Gianpaolo Paglia, viticoltore maremmano spesso in controtendenza con il pensiero dominante tra i suoi colleghi:
Qual è il vino di grande, grandissimo successo che oggi tira tutte le esportazioni italiane nel mondo, e che fa andare verso l’alto tutti gli indici per la gioia e l’orgoglio nazionale, a tutti i livelli dell’enoica nazione italiana? Vi dice niente il “Pinot Grigio phenomenon” ? Eggià, perché quando si vede che l’Italia conquista quote di mercato in UK, in USA, se si va a guardare bene è probabile che la “corsa” sia tirata quasi tutta da questa umile varietà, peraltro poco riconosciuta come uva di qualità in Italia, dove la gente preferisce in genere altri vini. E infatti, prima di glorificare i trionfi italici sulle spalle del Pinot Grigio, forse varrebbe la pena di vedere che quest’uva è diventata un brand, ma che questo brand per forza di cose può essere riprodotto ovunque, sia fuori UE, che in paesi come la Romania o la Bulgaria, che hanno tradizione vinicola millenaria e dove si produce a meno prezzo che nel nostro paese. Vai a vedere che le liberalizzazioni selvagge non ci intacchino questo “patrimonio”. Mentre tutti ci riempiamo la bocca con il “terroir”, forse è un po’ scomodo vedere, e fa anche un po’ paura, che i nostri maggiori successi sono legati ad una varietà. Proprio come per i paesi del Nuovo Mondo.
Sì, sì, tieniamoci i diritti di impianto (quote varie e limitazioni varie) e poi però tutti gli imprenditori (visto che il mercato è chiusissimo, pssiamo chiamarli così?) agricoli che si lamentano per la burocrazia. Quella nel settore vitivinicolo non esito a definirla il peggior mostro amministrativo che la grande europa abbia partorito. Credo che voi umani non potete nemmeno immaginare quanti ci costa (costi sostenuti dalla fiscalità generale quindi da tutta la collettività) la gestione della macchina burocratica “viticola”.