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Per iniziare a tagliare la spesa non bisogna aspettare la spending review

4 aprile 2012

Libertiamo – 04/04/2012

Ormai diamo tutti per scontato che la riduzione della spesa pubblica debba necessariamente compiersi solo alla fine di un accurato processo di analisi e revisione dei bilanci delle pubbliche amministrazioni, la famosa “spending review”, rischiando di dimenticare che esistono dinamiche grazie alle quali la spesa si gonfia automaticamente e inesorabilmente a prescindere dal modo in cui questo o quell’ente utilizza i suoi (nostri) soldi.

Una di queste, tanto per fare un esempio, è l’avanzamento automatico (di fatto, anche se teoricamente non più di diritto) per scatti di anzianità delle carriere della pubblica amministrazione. Avanzamento automatico che fa sì – non occorre un diploma da ragioniere per accorgersene – che ogni anno siano necessari più soldi per pagare un monte stipendi che con il tempo cresce a prescindere da qualsiasi valutazione sulla produttività di ogni dipendente pubblico. Anzi, la produttività viene necessariamente sacrificata, dato che in questo quadro i tagli ai budget delle pubbliche amministrazioni, se non possono incidere sulle retribuzioni, non possono che incidere sull’offerta di servizi.

Di più, immaginate un ufficio in cui il personale ogni anno avanza di livello: per fare cose che prima potevano essere fatte da quegli impiegati, e che oggi non fanno perché non rientrano più nelle loro competenze, dovremo per forza di cose procedere con nuove assunzioni o rivolgerci a ditte esterne. Questo è un altro effetto perverso della stessa dinamica. Ricorrere a commesse ed appalti esterni per svolgere ogni tipo di mansione, anche di ordinaria amministrazione, mentre il personale langue negli uffici, è diventata una pratica sempre più diffusa e “normale”. E sono sempre di più i soldi che schizzano via dalle casse dello Stato senza che nessuno abbia la possibilità di intervenire, con o senza spending review.

Certo, se da una parte gli avanzamenti automatici delle carriere nella PA sono un totem intoccabile per i sindacati, l’uso e l’abuso di appalti esterni sono terreno di coltura per le migliori pratiche di compravendita di consenso a spese altrui da parte delle forze politiche. La spending review è senz’altro cosa buona e giusta (meraviglia casomai il fatto che non ne esistano ancora di dettagliate e pronte all’uso, se consideriamo che questa espressione galleggia nel dibattito politico ormai da decenni), ma di fronte all’evidenza di situazioni come quella che ho appena descritto il timore è che continuare ad evocarla non sia altro che un modo per rimandare alle calende greche l’inevitabile incontro tra il pettine e nodi sempre più grossi.

Davvero si ritiene un’opzione possibile vagliare al microscopio ogni singola voce di bilancio di ogni singola amministrazione, sollevare il dibattito se trattasi di spesa produttiva o improduttiva, e poi un nuovo dibattito se trattasi di spesa giusta o sbagliata, in un’epoca in cui il concetto di public good ha travalicato abbondantemente non solo la corretta definizione economica, ma anche quella che sarebbe dettata dalla logica e dal buon senso? E mentre si procede con il microscopio, continuare ad ignorare ciò che si vede benissimo ad occhio nudo, fingendo di dimenticare che anche nella remotissima ipotesi di riuscire a purificare il bilancio dello Stato da ogni spreco, saranno le dinamiche che gonfiano automaticamente la spesa pubblica (e quindi il debito, e quindi la pressione fiscale, e quindi lo spread) a riportarci in breve tempo al punto di partenza?

E’ necessario chiedersi se il patto che ha portato alla nascita del governo Monti governo preveda, oltre all’intervento sulla spesa previdenziale, l’ipotesi di intervenire davvero e in modo definitivo sulla spesa pubblica e sui meccanismi che la rendono fuori controllo. Dalla risposta a questa domanda, che non può assolutamente rimandare all’esito della spending review del pur ottimo Giarda, deriva il grosso della credibilità di questo esecutivo.

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