Prima di tutto vennero a prendere…
Tagliare i fondi per la ricerca, in un paese in cui per la ricerca si spende meno che altrove, è una porcata inaccettabile. E’ particolarmente inaccettabile, poi, se si tagliano i fondi per la ricerca ma non quelli per lo spettacolo, per l’editoria o i costi della politica (e l’elenco sarebbe interminabile). E’ ancora più inaccettabile se si tagliano i fondi per la ricerca in un paese malato di bassa crescita e di scarsa competitività. Come ha giustamente rilevato Michele Boldrin, in un commento ad un post di Giovanni Federico su nFA, se è vero che si può produrre la stessa quantità di ricerca con meno soldi, è altrettanto vero, ed immensamente preferibile, produrre più ricerca (e di miglior qualità) con gli stessi soldi. Detto questo, alcune considerazioni.
Poco tempo fa ci siamo lungamente occupati della vicenda degli alberi transgenici dell’Università della Tuscia. In quell’occasione l’ottusa applicazione di una norma sbagliata ed imbecille (e autorità pubbliche palesemente inadempienti rispetto alle normative comunitarie) ha fatto sì che un lavoro di ricerca trentennale finanziato con i soldi dei contribuenti venisse gettato alle ortiche senza che ancora si potessero pubblicare nemmeno risultati parziali. Sarebbe interessante quantificare con precisione il costo di quella ricerca per capire quanti soldi sono stati polverizzati, per comprendere l’entità del “taglio” (perché di questo in sostanza si tratta) che la dotazione della ricerca pubblica italiana ha subito mentre si procedeva all’espianto prematuro di quegli alberi.
Più di mille cittadini italiani, e fra loro moltissimi studenti e ricercatori, hanno sottoscritto in meno di una settimana l’appello in difesa di quella ricerca pubblica. Nessuna istituzione scientifica (italiana), nessun ente di ricerca (italiano) ha sottoscritto ufficialmente l’appello o ha speso una parola. Nulla. L’inglese Rothamsted Research sì, ma dall’Italia solo silenzio, lo stesso silenzio che aveva accompagnato mesi prima la sottrazione di svariati milioni alla dotazione per la ricerca pubblica per finanziare la lobby antiscientifica presieduta dall’ex capo dei katanga.
Di più, se il prof. Eddo Rugini non ha ricorso contro la decisione del Ministero dell’Ambiente che lo obbligava a distruggere il lavoro di una vita, è perché era l’Università della Tuscia che avrebbe potuto farlo, ma ha evidentemente deciso di non farlo. La mattina in cui ho assistito personalmente ai primi espianti è stato piuttosto avvilente sentire professori di quell’ateneo (non tutti, grazie al cielo) sostenere che tutto sommato sull’argomento era stato fatto un po’ troppo casino, e che sarebbe stato preferibile tenere un profilo più basso. Il problema dell’Italia è che è piena di italiani, ovunque.
Dov’era l’INRAN, Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione, i cui vertici oggi giustamente strepitano contro la decisione, infame, di sopprimerlo, mentre venivano irrimediabilmente persi i risultati di una ricerca finanziata con i nostri soldi che aveva come oggetto proprio gli alimenti e la nutrizione?
La sensazione, sconfortante ma non nuova, è che agli enti di ricerca e alle istituzioni scientifiche di questo paese non interessi troppo il come, ma soltanto il quanto. Non i risultati della spesa per la ricerca, ma la spesa in sé. Una sorta di istinto di autoconservazione, laddove non esistono (ma neanche si cercano con troppo entusiasmo) alternative alla mammella pubblica e dove il fund raising è considerato ancora una sorta di peccato capitale. Questo purtroppo li rende molto simili alle molte corporazioni che in questo paese difendono a oltranza i loro privilegi. Solo meno, molto meno potenti ed influenti.
Guai a disturbare il manovratore, finché scorre abbastanza latte per tutti. Ci si incazza solo se si vede ridurre la portata del getto. Come diceva quella poesia attribuita a Bertold Brecht?
quanti firmarono contro Mussolini, fra i docenti universitari? dodici?
Credo che sia sensato scandalizzarsi contro i tagli alla ricerca, un grosso problema. Specie se pensiamo che i nostri soldi vengono sciupati a montagne per pagare appalti truccati.
Per i geni di bestiole impiantati negli alberi: questa pratica è piena di incognite. Al momento tutto quello che sappiamo degli esemplari commerciali esistenti è che non si sa bene se possano diventare un pericolo, o se saremo in grado di disfarcene qualora divenissero anche solo blandamente infestanti.
Un’altra cosa che mi lascia perplesso è la tempistica: 30 anni di studio. Di solito nell’industria si è soliti dire che una cosa che funziona dovrebbe dare risultati in 3 anni; se non ottieni effetti in periodi di tempo più estesi, forse hai scelto una strada infruttuosa. Immagino comunque che i risultati parziali di queste ricerche siano stati pubblicati: non è realmente possibile demolire con una pala gommata la conoscenza che hai già provveduto a trasmettere alle persone intorno a te…..
Caro Fausto, in ordine:
1) “geni di bestiole”. Quali bestiole?
2) “tutto quello che sappiamo degli esemplari commerciali esistenti è che non si sa bene se possano diventare un pericolo”. Non è vero. Sappiamo che non sono un pericolo. Nessuna evidenza ha mai evidenziato pericoli di nessun tipo. La ricerca serve anche ad escludere pericoli.
3) “30 anni di studio”. Sono alberi, non microchip. La ricerca agraria è lenta anche perché agli anni di ricerca in laboratorio si devono sommare gli anni perché una pianta arrivi a maturazione e gli anni in cui le sue caratteristiche devono essere osservate. Se un albero presenta una determinata resistenza ad un virus, questo fenemeno deve essere osservato più volte, inevitabilmente di anno in anno, prima che si possa mettere per iscritto. Il metodo scientifico non ha gli stessi tempi del pregiudizio e della politica. E’ la sua forza, a volte la sua debolezza.
4) “Immagino comunque che i risultati parziali di queste ricerche siano stati pubblicati”. No, perché in genere si pubblicano i risultati definitivi.
Benissimo, grazie per le precisazioni ragionevoli, equilibrate ed equidistanti da qualsivoglia partigianeria lobbistica.
Abbandono il campo rammentando lo splendido caso “soia + roundup + monsanto”; è una semplice ricerca che aiuterà a capire a cosa sono realmente servite alcune scelte industriali recenti.
Buone cose, e occhio alla penna: non sempre quello che spargi su una foglia si degrada prima di giungere sulla tua tavola.
Fausto, non so a cosa tu ti riferisca quando parli di partigianeria lobbistica. Potresti essere più preciso?
Ho risposto brevemente ad alcune tue argomentazioni infondate dal punto di vista scientifico. Tutto qui. Dimostrami il contrario (ma prendere le notizie su disinformazione.it e roba simile non fa testo, e spero non occorra spiegare il perché) e sarò ben lieto di prenderne atto.
Alla fine della fiera sarà la distruzione dei suoli condotta con perniciose monocolture a far giustizia di alcune scelte errate. Queste monosuccessioni diserbate a man bassa mi ricordano tanto le patate irlandesi dell’800. Logicamente questa vicenda non dovrebbe avere molta relazione con le sperimentazioni svolte attorno alle specie arboree, ma la radice del metodo è analoga. Pace e bene, spero di cavarmela quando arriverà la tempesta.
Piuttosto, per le attività di ricerca: mi suona strano che un ente che fa ricerca scientifica vada avanti per trent’anni senza pubblicare niente su ciò che fa. Dopo i primi quattro o cinque anni, in teoria, qualche ispettore ministeriale dovrebbe intervenire per indagare sullo stato di funzionamento dell’ente, o almeno questo accade di solito. E’ noto che le strutture dedite alla ricerca scientifica vengano giudicate sulla base dell’impatto delle pubblicazioni prodotte, non è certo un mistero. E il giudizio viene emesso per ogni annata di funzionamento; nei casi comuni già dopo due o tre anni si vedono tagli grossi ai fondi, se non ci sono riscontri incoraggianti. Sono vicende poco simpatiche che hanno colpito anche persone a me vicine.
Come ha fatto a sopravvivere un ente che non pubblicava niente su ciò che faceva da decenni? Mi sembra una vicenda davvero molto strana, insolita, piuttosto lontana dal funzionamento usuale degli enti di ricerca che ho conosciuto di persona (lavorandoci dentro).
Altra vicenda: un ulivo va in in produzione nel giro di alcuni anni; nei vigneti e nei frutteti di solito sei a regime nel giro di 3 – 5 anni. Lo dice uno che va a vendemmiare e a squadrare vigne nel tempo libero. E’ ragionevole pensare che un decennio sia più che sufficiente per realizzare, allevare e valutare un gruppetto di nuove cultivar; persino con tradizionali metodi incrocio / selezione. Figurarsi con l’immissione forzata di patrimonio genetico estraneo: che accelera i tempi in maniera considerevole, e per questo piace tanto all’industria. Non otterrai qualcosa di definitivo, ma dopo dieci anni un documento che illustri le tecniche di intervento / analisi ed i primi effetti sperimentali lo puoi anche mettere in circolazione. Mi domando come mai nel caso in esempio tre decenni non fossero bastati per giungere a nessun (nessun!) risultato valutabile e pubblicabile. Che strana storia. Davvero molto, molto strana. Stranissima.
Cosa c’entrano gli OGM con le “monocoltivazioni diserbate a man bassa”? In genere gli OGM riducono, non aumentano l’impiego di pesticidi, nel caso di varietà resistenti ai parassiti, o consentono l’uso di diserbanti meno costosi e nocivi (perché meno selettivi), come il roundup.
Quanto alle stranezze che tu riscontri nella vicenda degli ulivi, kiwi, e ciliegi transgenici dell’università della Tuscia, ho l’impressione che fai confusione tra “pubblicazione” dei risultati di una ricerca, cosa che prevede che gli stessi risultati siano riproducibili altrove, con le verifiche periodiche che vengono fatte sul lavoro di un gruppo di ricercatori. Rugini mi raccontava che ogni anno (non ogni tre o quattro o dieci) venivano dei tecnici del ministero dell’ambiente a verificare che le cose si svolgessero secondo i protocolli. Ma la pubblicazione (su una rivista scientifica qualificata, dopo peer review, è ben altra cosa. Per esempio, della ricerca del CERN sul bosone di Higgs sono stati annunciati i risultati, ma non sono stati ancora pubblicati. Eppure vuoi vedere che su quella particella si lavora da decenni? Anche quella è “una strana storia, davvero molto, molto strana, stranissima”?
Poi “un documento che illustri le tecniche di intervento / analisi ed i primi effetti sperimentali lo puoi anche mettere in circolazione”, certo, solo che dal punto di vista scientifico non avrebbe molta rilevanza, e difficilmente troveresti qualcuno disposto a pubblicarli. Se poi l’ente che ha svolto questa ricerca è sopravvissuto nel corso degli anni, non sarà forse perché si tratta di un’università, e che quindi ha fatto anche altre cose, tra cui didattica, per esempio?
Gli ulivi fruttificano dopo pochi anni. Già. Evidentemente Rugini non va a vendemmiare nel tempo libero. Però sei al corrente di quanto fossero sviluppate le talee che sono state piantate nei campi dell’università della Tuscia? Sei al corrente del fatto che il lavoro si è svolto sia sui portinnesti che sugli alberi veri e propri, quindi necessariamente in tempi differenti? Gli ulivi poi, non hanno ancora fiorito. Questo forse sarebbe stato il primo anno. La ragione la ha spiegata lo stesso Rugini in più di un’occasione: le piante hanno subito un ringiovanimento durante la permanenza in vitro. Nulla di strano, anche in questo caso.
Fausto
Non capisco la tua posizione.
Avresti ragione se la prova fosse stata interrotta perchè il Prof. Rugini menava il can per l’aia e se ne fosse stata certificata l’incapacità a lavorare. Questo non è stato fatto e quindi fino a prova contraria tutto ciò che dici della sperimentazione e della produttività intellettuale del Prof. Rugini sono tue illazioni e le usi solo perchè funzionali alla tua tesi non verificata anzi totalmente fuori luogo.
Al Prof. Rugini non è stata concessa la proroga perchè GenEticaMente ha intimato al Ministero dell’ambiente che se non facevano interrompere la prova li avrebbero denunciati per omissioni d’atti d’ufficio in quanto si temeva (non vi era nessuna prova) che propagassero nell’ambiente Polline OGM. Il che era proibito dalla legge.
MI sembra anche che tu non conosca proprio nulla di quanto il Prof. Rugini stava ricercando, non solo ma non ti sei neppure peritato di saperlo. L’ulivo di cui sembra che tu abbia una conoscenza solo perchè hai fatto il coglitore salariato non era ancora entrato in fioritura per il semplice fatto che il portainnesto geneticamente modificato ne ha ritardato il ciclo. Inoltre chi ti dice che gli olivi avessero trent’anni, infatti non è così.
Inoltre ti informo che un portainnesto GM non fa produrre al nesto del polline modificato.
Non esisteva quindi nessun pericolo di emissione di polline modificato ne sull’olivo e neppure sul kiwi perchè i fiori maschi erano castrati e si eseguiva l’impollinazione con altro polline non GM. Per quanto riguarda i ciliegi ve n’erano di due tipi una non transgenico che quindi emetteva polline normale, mentre quelli che dovevano servire da portainnesti invece erano trploidi quindi il polline era sterile.
Quindi da questo punto di vista il Prof Rugini si era premunito affinchè non venissero immessi OGM nell’ambiente.
La tua polemica quindi è solo strumentale.
Carissimi, Vi ringrazio per la premura nel rispondere, per l’educazione e la cortesia. Vi voglio solo segnalare la paginata dedicata al glifosato:
http://en.wikipedia.org/wiki/Glyphosate
La quale giustamente ricorda quali siano gli obiettivi perseguiti nello sviluppo di parecchie cultivar ogm di successo, per l’appunto occupanti più di un centinaio di milioni di ha nel mondo e ricoperte di erbicida durante lo sviluppo in pieno campo. Una storia malinconica di brevetti scaduti, la cui conclusione è ancora molto lontana. Di una cosa almeno possiamo star certi: le varietà disponibili non faranno fallire i produttori di erbicidi. Che fortuna.
Fausto, ti stai inerpicando in una serie interminabile di non sequitur. Come ho già fatto notare, il mais e la soia convenzionale hanno bisogno, per garantire analoghi risultati, di più erbicidi rispetto alla soia e al mais roundup ready. E’ proprio questa la ragione del loro successo, perché permettono una gestione più economica che ricopre, in genere, il loro costo maggiore rispetto alle varietà convenzionali. E a minori imputs produttivi corrisponde un minore impatto ambientale. Se questo dovesse confliggere con le tue incrollabili certezze relative al sordido mondo delle multinazionali, non so proprio cosa farci.
“…il mais e la soia convenzionale hanno bisogno, per garantire analoghi risultati, di più erbicidi rispetto alla soia e al mais roundup ready…”.
Certo: perché devi fare il trattamento e POI seminare. Con la varietà ogm, al contrario, puoi semplicemente seminare, attendere l’inizio dell’emergenza delle infestanti e quindi trattare con l’erbicida. Magnifico, dato che con una dose ragionevole di erbicida risolvi il problema per l’intera campagna; la pianta che coltivi ovviamente non muore. E la Monsanto può fare felicemente soldi vendendo la semente, dato che il brevetto dell’erbicida era scaduto.
Questa cosa ha un solo, minuscolo difettino: il prodotto chimico viene messo a contatto con la coltivazione in atto, che ci fa la doccia, senza tempi di attesa. Ce ne sarà inevitabilmente un po da mangiare alla raccolta, nei tessuti di riserva dei semi, ma che vuoi che sia. Son cose che capitano.
coraggio Giordano! un giorno uscirà un bell’articolo sulla cancerogeneticità delle tastiere per computer, e certi commenti non li dovremo più leggere 🙂
Fausto, sei su un sentiero sempre più accidentato, in cui l’unica cosa evidente è che di agricoltura non hai la minima conoscenza. Nulla di male, per carità, ma ci vorrebbe almeno un po’ di spocchia in meno quando si affermano sciocchezze di questa portata. Solo una piccola parte degli erbicidi vengono applicati in presemina. La maggior parte di essi, invece, viene applicata in post emergenza, su qualsiasi coltura erbacea non OGM, e quindi la pianta ci fa la doccia comunque. Solo che, essendo selettivi, in grado quindi di eliminare solo una certa tipologia di malerbe e non altre, ci vogliono più passaggi, e più prodotti.
Fausto
Ma perchè l’ideologia ti deve obnubilare il cervello e farti inoltrare su campi tecnici che non conosci. Sai almeno cosa facevano e fanno le triazine?
“…ci vorrebbe almeno un po’ di spocchia in meno quando si affermano sciocchezze di questa portata…”.
“…perchè l’ideologia ti deve obnubilare il cervello…”.
Finalmente riconosco lo stile. Arrivederci e buon proseguimento.
Fausto
Abbiamo tentato e ce ne hai dato atto, ma inutilmente…..
Mi dispiace che te la sia presa, Fausto. Ma al di là delle battute, rileggendo i commenti puoi verificare che ho sempre risposto nel merito alle tue obiezioni. Risposte alle quali hai replicato sempre cambiando argomento e cercando spunti di polemica di volta in volta più fragili.
Anzi, sono ancora in attesa di sapere quali sarebbero le “bestiole” i cui geni sarebbero stati trasferiti nelle piante in questione, e quale studio pubblicato su una rivista che sottopone i contenuti a peer review ha mai certificato l’eventualità di rischi per la salute umana o per l’ambiente derivante dalle varietà GM attualmente in commercio.