Ancora su Michele Serra e l’Impero della Carne (sic)
Come promesso, torniamo a parlare di Michele Serra. Il post di alcuni giorni fa aveva fatto storcere parecchi nasi e la ragione sarebbe che, a quanto sembra, me la sarei presa con l’autore de L’Amaca con troppa veemenza e senza portare molti argomenti alla discussione. Poi qualcuno si è risentito per una mia battuta sui “cervelli fritti da liceo classico”, ma andiamo per ordine, e proviamo a fornire qualche elemento in più alla discussione.
Prima una doverosa premessa: a me Serra non è affatto antipatico. Mi riconosco spesso nel moralismo un po’ snob che trasuda dalle sue pagine, e apprezzo (forse un po’ invidio) il suo modo cortese di porre le cose. Oggi è l’ultimo giorno dell’unica settimana di vere vacanze dell’anno, quindi mi ero ripromesso di aspettare il ritorno a casa per mettermi a cercare dati e cifre, ma per fortuna proprio ieri mi sono imbattuto in un articolo di Fabio Scacciavillani sul Fatto Quotidiano che mi fornisce, in poche righe, tutto o quasi tutto il materiale che ci serviva. Si parla di crescita:
Nei paesi emergenti la musica passa dal requiem all’andante con brio (per quanto meno brioso della marcia trionfale di qualche anno fa). Della Cina si parla diffusamente, quindi non sorprende constatare che cresce all’8% (anche se i tassi a due cifre del trentennio passato sono ormai definitivamente alle spalle). L’altro gigante asiatico, l’India, attraversa un momento difficile per lo stallo nelle riforme strutturali, determinato da corruzione endemica ed estenuanti diatribe politiche, ma registra pur sempre un +6%. Stesso ritmo in Indonesia, che fin quando aveva petrolio in abbondanza ristagnava; finito il petrolio ha messo le ali.
In America latina la performance risulta più anemica soprattutto in Brasile (+2,5%), il gigante dell’area, in affanno per il calo dei prezzi delle materie prime e l’apprezzamento della valuta, ma che comunque sta cauterizzando le piaghe del sottosviluppo. Situazione simile in Medio Oriente e nord Africa, dove sussistono forti differenze tra paesi produttori di petrolio (con tassi tra il 5% ed 6%) e tutti gli altri, in particolare laddove è sbocciata la primavera araba. (…)
Le vere sorprese però le riserva l’Africa sub sahariana, un continente fino a pochi anni fa disperso nella terra di mezzo tra disastro e disperazione. Il continento nero non solo non ha risentito della crisi dei paesi avanzati, ma alcune zone ricordano le tigri asiatiche. Il Pil in Niger salirà quest’anno del 14%, in Angola quasi del 10%, in Mozambico del 7% (molti portoghesi si stanno trasferendo nelle ex colonie), in Ghana del 9%, in Zambia dell’8%. Persino paesi devastati dalla guerra civile come Congo (+6,5%), Costa d’Avorio (+8%), Liberia (+9%) e Sierra Leone (+36%) vengono trascinati dalla corrente impetuosa. Riemergono casi disperati Zimbabwe (+5%), Eritrea (+7,5%), Nigeria (+7%), Burkina Faso (+5%) ed Etiopia (+5%). Purtroppo le tragedie non mancano come in Sud Sudan, Mali e Somalia, ma si tratta ormai di eccezioni
Queste cifre possono servire per suggerire l’idea che l’aumento della domanda globale di carne non proviene dai paesi occidentali (dove infatti i consumi si stanno contraendo, anche senza le prediche di Serra), ma dai paesi emergenti, dove letteralmente miliardi di persone stanno adeguando il loro stile di vita al reddito, a cominciare dalle abitudini alimentari. E le performances dell’Africa sub-sahariana stanno lì ad indicare due cose: da una parte che la domanda non andrà a calare per un bel pezzo, dall’altra che il tentativo, da parte di quello che Michele Serra chiama Impero della Carne (sic) di soddisfare questa domanda è foriero di sviluppo e crescita economica: infatti parte dei livelli di crescita di quei paesi sono dovuti proprio agli investimenti esteri in terra coltivabile.
E l’ambiente? La biodiversità? Da queste parti lo abbiamo ripetuto fino alla nausea, ma quando si parla di biodiversità bisognerebbe prima informarsi sul significato del termine. Quel che a noi, che forse secondo Serra non siamo né sufficiente “sensibili” né particolarmente “informati”, basta dire, è che l’intensificazione agricola non è nemica della biodiversità, né della biodiversità complessiva né di quella agricola (perché esiste una differenza tra le due cose). Dato che di copia e incolla per oggi ne abbiamo fatti abbastanza, rimandiamo semplicemente a questo post dello scorso anno in cui spieghiamo il concetto in maniera più diffusa.
E le monocolture? Se tutta la superficie coltivabile del pianeta sarà coltivata a mais e/o a soia per dar da mangiare alle vacche, che ne sarà della biodiversità? Dell’insalata mista? Di noi? Quando, l’altra volta dicevo che i processi produttivi legati al cibo sembrano essere diventati l’argomento prediletto di discussione per chi non ne capisce nulla, parlavo con una certa cognizione di causa. Tanta gente spalanca gli occhi quando viene a sapere che una parte preponderante di quel che coltiviamo oggi è destinato all’alimentazione animale. Ebbene, vi svelo un segreto: è sempre stato così. Quando, nelle colline dell’Italia centrale della mezzadria e nelle cascine della Pianura Padana c’era una stalla, più o meno grande, in ogni podere, a chi pensate che venissero destinati la maggior parte dei prodotti della terra? O a quell’epoca le vacche mangiavano nidi di vespe? L’unica differenza è che quello che un tempo veniva fatto in un certo modo oggi lo si fa in un altro, tremendamante più produttivo ed efficiente, e la ragione (forse banale, per Serra), è che ci sono molte più bocche da sfamare.
E sembra che i risultati siano buoni: nel 1950, sul pianeta Terra, un miliardo di persone su un totale di 2 miliardi e mezzo di abitanti soffriva la fame. Oggi, lo stesso pianeta fornisce cibo a sufficienza per più di 6 miliardi di persone, su un totale di 7 miliardi di abitanti. In circa sei decenni la percentuale di persone che soffrono la fame e la malnutrizione è passata dal 40% al 15%, mentre, in termini assoluti, lo stesso pianeta le cui risorse erano a malapena sufficienti a nutrire 1,5 miliardi di individui oggi ne sfama quattro volte tanti.
E se continuiamo ad aumentare? Ce ne sarà abbastanza per tutti? Non hai visto quanta acqua ci vuole per fare una bistecca? Anche qui, bisognerebbe distinguere i fatti dai luohi comuni. Innanzitutto, chi conosce il ciclo dell’acqua sa che non tutta l’acqua che viene usata viene anche consumata, ovvero esce dal ciclo. E certi calcoli catastrofisti che inseriscono nel computo dell’acqua necessaria a produrre un chilo di carne anche l’acqua necessaria a produrre gli utensili da lavoro dell’agricoltore, il camion del trasportatore, il frigorifero del magazziniere e via discorrendo, quasi che quegli attrezzi, querl camion e quel frigo servissero solo ed esclusivamente per quel chilo di carne, forse andrebbero presi un po’ con le molle. In ogni caso basti dire che usare più acqua dove ce ne è in abbondanza non impoverisce il pianeta, mentre è il caso di preoccuparsi di quelle regioni in cui l’impronta idrica è negativa: coltivare mais in Olanda, in Pianura Padana o nel Sahel sono cose diverse. Ma anche qui sappiamo che, come è sempre stato, è la tecnologia che viene incontro alle esigenze di quell’orrida bestia che è il mercato: è notizia di poco tempo fa che Monsanto ha brevettato e immesso sul mercato USA una varietà di mais resistente agli stres idrici, e per chi ritenesse Monsanto una filiale maligna dell’Impero della Carne (sic), può essere utile sapere che in Kenya una partnership pubblico-privata sostenuta anche dalla Bill & Melinda Gates Foundation sta tirando fuori una varietà simile che, udite udite, sarà immessa sul mercato senza chiedere agli agricoltori il pagamento di nessuna royalty.
Allora. Qual’è il mondo che piacerebbe a Michele Serra? Quello in grado di sfamare solo 1/7 degli abitanti della Terra? Quale “centralità” e “autodeterminazione” dovrebbero “riacquistare” i contadini, quella dei tempi del gozzo e della pellagra? Perché tra le altre cose capita anche che l’Impero della Carne (sic), l’agroindustria, o come diavolo Serra la vuole chiamare, abbia migliorato e continui a migliorare anche le condizioni di vita di chi la terra la lavora, ovunque nel mondo.
Ma, lo sappiamo bene, il problema è alla radice, e rende la misura della distanza siderale che intercorre tra me e Michele Serra: a Michele Serra fa schifo il mercato. Michele Serra ritiene che un sistema produttivo più efficiente sia un parto del demonio, un mostro che impoverisce i produttori, vizia e uccide i consumatori, e tutto in nome del profitto. Mentre i Signori dell’Impero della Carne (sic) si arricchiscono e contano i loro sporchi dollari, a voi s’impenna il colesterolo, del mondo vegetale viene fatta “tabula rasa”, così come della biodiversità e dell’autodeterminazione dei contadini. E tutto perché voi, pigri, flaccidi e golosi che non siete ancora abbastanza “sensibili e informati”, non siete in grado di mangiare qualche hamburger in meno. Ma non era più giusto e “etico” il mondo in cui si andava a caccia per procurarsi il cibo?
Ora, quali argomentazioni dovremmo addurre per confutare un simile modo di ragionare? Dovremo suggerire a Michele Serra che forse il suo tenore di vita è complessivamente migliore di quello dei suoi antenati, la sua aspettativa di vita più lunga, e ben maggiori le possibilità di scelta quando decide cosa preparare per pranzo? Che anche chi lavora la terra vive incomparabilmente meglio di chi la lavorava cento anni fa, può far studiare i suoi figli, può decidere anche di cambiar vita (cos’è l’autodeterminazione per Serra?)? Ce ne è davvero bisogno, o è sufficiente dire che Michele Serra ha scritto un mucchio di stupidaggini autoevidenti anche per persone, magari meno “sensibili”, ma sufficientemente “informate” da ricordarsi quantomeno i racconti dei nonni su come si campava ai “bei tempi”? Io ho optato per la seconda strada, e qualcuno si è offeso. Pazienza.
E pazienza anche se qualcuno si è risentito perché ho detto che siamo un paese di cervelli fritti da liceo classico. Il liceo classico l’ho fatto anch’io, e con quella battuta mi riferivo, pensavo fosse chiaro, a un sistema formativo che dai tempi di Benedetto Croce ha relegato le materie e le discipline scientifiche alla subalternità, e a un modo di pensare largamente diffuso che pretende (con successo, purtroppo) di supplire alla mancanza di conoscenze specifiche con la retorica, le chiacchiere e le frasi che suonano bene ma dicono poco. Ecco, non so che scuola abbia fatto Michele Serra, ma il suo modo di ragionare e argomentare è esattamente quello.
classiche seghe mentali da comunista in cachemire (quelle di Serra)
Se Tarquini di Repubblica dovesse leggere il tuo articolo partirà con una filippica contro la Monsanto che brevetta IL mais (e non un particolare tipo di mais) e che fa la generosa con i contadini kenyani perché tanto le royalties se le cussa da quelli del mondo ricco 🙂
È tristissimo e vero quello che dici su Benedetto Croce (come ricorderai ne parlai anch’io qui: http://pensieri-eretici.blogspot.de/2011/10/ne-portiamo-ancora-la-croce.html). Ha fatto più danni alla cultura e all’istruzione italiana lui di Gelmini, Moratti, Falcucci e compagnia canatante.
Saluti,
Mauro.
Va tutto benissimo e condivido interamente l’assunto.Peccato che alla fine, a proposito di “cervelli fritti da liceo classico”, si dice uno sproposito, un trito luogo comune.Croce non ha mai cercato di relegare in una sorta di subalternità la scienza.Ha semplicemente messo in evidenza la diversità di metodo tra la ricerca filosofica, i cui concetti tendono all’intuizione della verità del tutto universale, e la ricerca scientifica, ipotetica ed empirica, esaltandone la necessità e indispensabilità ai fini del pogresso umano. Al tempo di Gentile, ministro dell’istruzione durante il ventennio fascista e autore della riforma ingiustamente vituperata, lo stesso ministro idealista diede vita a decine di iniziative di altissimo livello intese alla valorizzazione della scienza – che la Repubblica, dal 1948 ad oggi nemmeno si sogna.Il fatto è che tra cattolici e comunisti, questi signori, dal dopoguerra ad oggi, hanno ricreato una specie di stato pontificio ante-Risorgimento, in dispregio della vita terrena i primi e in odio al capitalismo e al mercato i secondi.Un’accoppiata terrificante, che ha prodotto rovine ovunque si giri lo sguardo.
Pezzo bellissimo, da incorniciare. Anzi, diciamo pure: capolavoro. Complimenti, Giordano, questo scritto diventerà un utile punto di riferimento.
Sapete cos’è la Biodiversità per un africano? E’ il salvaguardare ciò che gli serve, tutto il resto è superfluo, noi siamo stati africani per molto tempo è solo da quando siamo diventati ricchi e che ci siamo allontanati dalla terra che esigiamo che gli agricoltori salvaguardino l’ambiente per le nostre passeggiate domenicali.
monsù Masini, concordo completamente con ciò che ha scritto in questo e nel precedente post.
anche la parte sul liceo classico.
i miei lo frequentarono entrambi (allora no c’era altro), mio padre si laureà poi in ingegneria a mia madre in fisica. noi sei fratelli lo frequentammo tutti quanti, tutti quanti abbiamo intrapreso poi carriere scientifiche, professionali o tecniche, pur non essendo tutti laureati in scienze dure.
io, troppo stupido per studiare roba scientifica o tecnica, adesso come adesso faccio traduzioni tecniche in e dal cinese, e devo dire che – a parte l’indispensabile apprendimento della lingua in università – devo ringraziare il liceo classico per quanto di “altro” mi ha dato rispetto ai classici in sé e per sé, dalla capacità di analizzare i problemi a quella di confrontarmi con lingue totalmente aliene, a quella di cercare di capire COMUNQUE, o almeno di costruirmi gli strumenti utili a capire, a quella di tenere sempre occhi e orecchie aperte alle novità, a una doverosa e utilissima umiltà intellettuale.
e devo dire che ho compreso esattamente il significato di “cervelli fritti dal liceo classico”, l’ho compreso parecchi anni fa, alla prima settimana di università, quando il prof di cinese ci disse, candidamente: “non crediate di poter usare in Cina quel che state studiando qui: voi non vi state preparando a conoscere e usare una lingua, ma a diventare sinologi”….
e infatti l’ho frequentata soltanto per lettorati ed esami, cercando di tenermene lontano il più possibile.
proprio perché quella mentalità era il risultato dei ragionamenti du chi aveva “fatto il classico” senza riuscire né a capirci qualcosa, né a ricavarci un senso.
e purtroppo le facoltà umanistiche ne sono piene, di questi tipi, sia nel corpo docente che tra gli studenti.
@ Rinaldi
Senza polemica, ma i casi sono due.
O non hai capito Croce. O anche tu consideri la scienza come non cultura.
Saluti,
Mauro.
Caro Mauro, se i casi sono due, possiamo ridurli subito a uno.Siccome non sono così folle da considerare la scienza come non cultura, rimane il caso che io non abbia capito Croce.Può darsi.Ma dovremmo almeno verificare questa mia incomprensione.E, senza polemica, se i casi fossero tre?
Saluti.
E pensare che io solo “Bifolco istruito” leggasi frequentatore di Istituto Tecnico Agrario, ho spesso invidiato coloro che con studi liceali, specialmente classici ,dimostrarono che avevano molta più capacità di analisi e sintesi della mia.
@Rinaldi (e per tutti quelli che si sentono offesi se gli si tocca il classico)
Riguardo al “trito luogo comune”, ecco come Armando Massarenti incenerisce una Alessandra Tarquini che proprio nei giorni scorsi era intervenuta per difendere Croce e Gentile dalle accuse di responsabilità sulla disastrosa cultura scientifica che caratterizza questo paese.
Il dibattito inizia all’ottavo minuto circa.
http://tinyurl.com/8c7nx7x
In realtà la cosa più irritante dell’articolo di Serra è il passo in cui afferma che “non c’è persona sensibile e informata che non si renda conto” ecc. ecc., dando palesemente a intendere che se non la pensi come lui non sei né sensibile né informato: una specie di troglodita imbecille, in sostanza. Proprio oggi mi sono imbattuto in un articolo di Francesco Piccolo sul Corriere in cui si parla proprio di questo atteggiamento, ormai dominante tra le self proclaimed teste pensanti della sinistra: http://newrassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/getPDFarticolo.asp?currentArticle=1JWS8V
Sostanzialmente condivido l’assunto, ma anche qui, come per la storia del liceo classico, stiamo andando un po’ off topic rispetto al tema del post
Allora. Del classico non ce ne frega niente. Noi genitori, ad esempio, abbiamo VIETATO il classico ai nostri figli fin dalla loro tenera età. Per una questione onomatopeica abbiamo accettato lo scientifico, ma subito dopo ci siamo pentiti, salvo poi constatare che non c’erano alternative.
Il problema è appunto il contesto in cui si è formata la classe dirigente di questo paese. Il problema è appunto il modo in cui possiamo cambiare la mentalità che domina la classe dirigente di questo paese.
@ Rinaldi
Croce è pieno di difetti, ma non ha quello di non essere chiaro nelle sue idee e concetti (sia in quelli apprezzabili che in quelli disprezzabili).
Quindi i casi rimangono due. E uno lo escludi tu stesso, per cui alla fine ne rimane uno solo.
Saluti,
Mauro.
@ Guidorzi
Le capacità di analisi e di sintesi non dipendono dalla scuola che hai fatto, ma dagli insegnanti che hai avuto.
La scuola che hai fatto – in un mondo ideale – influisce sull’ampiezza (in senso di varietà prima che di quantità o qualità, comunque) del tuo bagaglio culturale, non sul resto.
Lasciatelo dire da uno che ha fatto il liceo scientifico, ma avrebbe voluto fare il perito in telecomunicazioni (la successiva laurea in fisica sarebbe comunque stata scelta in entrambi i casi).
Saluti,
Mauro.
Mauro
Gli insegnanti dovevano darci cognizioni tecniche su cognizioni tecniche perchè la campagna ci aspettava a braccia aperte (allora…) Al massimo riuscivamo a leggere il bignami della Divina Commedia o dei Promessi Sposi. Ma andava bene così perchè il trasferimento di nozioni agli agricoltori era sufficiente a creare progresso.