Terra nuova, buoi rossi e teste dure
Michele Serra insiste, e allora insistiamo anche noi. L’ultima puntata della saga (qui, quo e qua le precedenti) ce l’eravamo persa, e l’abbiamo recuperata solo leggendo il bellissimo articolo che Antonio Pascale ha dedicato, sul Post, all’editorialista di Repubblica, e che vi consiglio caldamente di leggere. Per farla breve, Serra ha risposto sul Venerdì di Repubblica ad alcune critiche che gli erano piovute addosso quando si è messo a parlare di agricoltura intensiva ed OGM, e come era prevedibile si è incartato ancora di più. Quindi ci perdonerà se ci ostiniamo a non concedergli l’ultima parola: d’altronde il pulpito del quale dispone gode di una visibilità incomparabilmente superiore alla nostra. Ma è proprio tale visibilità che dovrebbe suggerire al buon giornalista che non è il caso di sparare minchiate a vanvera. Ma Michele Serra insiste e scrive:
tra la zappa e il diserbante chimico venduto in simbiosi con la semente Ogm c’è la stessa differenza che corre tra una fionda e la bomba atomica. Entrambe sono armi, ma il loro potere di modificare l’ambiente è incomparabile. È vero che l’ambiente agricolo è, dai suoi albori, prodotto della manipolazione umana. Ma una manipolazione in grado di cancellare da enormi estensioni di terreno ogni forma di vita vegetale per fare crescere la sola specie (Ogm) immune al diserbante, come accade in molte parti del mondo e soprattutto nelle due Americhe, infligge un trauma così definitivo e repentino all’ambiente da suscitare, se permettete, almeno qualche perplessità.
Quello che Michele Serra si ostina ad ignorare è che è vero esattamente il contrario. Se vuole farsi un’idea di un modo di produzione i cui effetti per l’ambiente sono simili a quelli prodotti dall’esplosione di una bomba atomica, Michele Serra non deve andar lontano. Non deve avventurarsi nel Corn Belt americano o nelle pianure argentine coltivate prevalentemente a soia Roundup Ready. E’ sufficiente fare una passeggiata attraverso le colline dell’Italia centrale, tra le crete senesi o nei pascoli costieri dominati dalla macchia mediterranea. Perché quel paesaggio, al quale siamo giustamente tanto affezionati, è frutto essenzialmente del fuoco. Non il fuoco accidentale, ma il fuoco appiccato intenzionalmente per liberare superfici enormi di terreno dalla vegetazione spontanea, e dedicarli all’allevamento e all’agricoltura. L’agricoltura della zappa, non degli OGM. Fuoco, non diserbante chimico. Peccato che non ci fosse un Michele Serra a difendere la biodiversità, nel neolitico e giù di lì.
E infatti la caratteristica principale della vegetazione della macchia mediterranea è quella di essere composta essenzialmente da piante resistenti al fuoco (o i cui semi sono resistenti al fuoco). La ginestra, tanto per fare un esempio. E’ una vegetazione residuale, ciò che è rimasto, in un paesaggio originariamente ricoperto di foreste, dopo un intervento antropico che definire devastante è un eufemismo. Può leggere, Michele Serra, il bellissimo “Terra nuova e buoi rossi“, in cui Emilio Sereni, uno straordinario storico dell’agricoltura, racconta proprio la trasformazione del paesaggio agrario peninsulare attraverso la pratica del “debbio”, ovvero la bruciatura delle foreste per far posto a nuove terre da dissodare. E di Sereni si fiderà, dato che ha fatto parte del Comitato Centrale del Partito Comunista Italiano dal 1946 al 1975 e non può essere certo sospettato di fare il gioco delle multinazionali.
E adesso ragioniamo su quanto il paesaggio agrario che ci è stato consegnato dalle generazioni passate sia mutato nell’ultimo secolo, in corrispondenza della Green Revolution, quella di cui gli OGM sono solo l’ultima tappa, e che secondo Serra dovrebbe lasciare dietro di sé un panorama da inverno nucleare. Assai poco, ci sembra, nonostante il bombardamento atomico delle nuove tecnologie. Non sarà, quindi, caro Michele, che abbiamo detto una (l’ennesima) cazzata? Di più: ci sono studi che attestano che la copertura forestale europea è aumentata sensibilmente nell’ultimo secolo: in Francia si è espansa di un terzo tra il 1830 e il 1960, e di un ulteriore quarto dal 1960 ad oggi. Simili processi si registrano in tutti paesi con un PIL pro-capite superiore ai 4600 dollari l’anno, e in molte nazioni in via di sviluppo, come Cina ed India.
Lo abbiamo ripetuto fino alla noia: l’intensificazione agricola non minaccia la biodiversità, anzi restituisce agli ecosistemi naturali terreni marginali e poco produttivi. E il costo di produzione di un bene continua ad essere il migliore indicatore dell’impatto ambientale dell’intero processo produttivo. Se produrre una certa quantità di cibo con la zappa costa enormemente di più che farlo con l’ausilio delle biotecnologie (e di tutto il resto) è assai probabile che anche l’impatto ambientale della zappa sia, in misura direttamente proporzionale, molto maggiore di quello delle tecnologie di cui diponiamo al giorno d’oggi. Usando la delicata metafora di Serra, ma al rovescio, potremmo quasi dire che c’è “la stessa differenza che corre tra una fionda e la bomba atomica“.
- PS. Un’ultima annotazione: quando si citano le fonti bisognerebbe sforzarsi di leggere con attenzione. Perché è vero, come dice Serra al termine della sua vertiginosa arrampicata sugli specchi, che “secondo la fonte più autorevole, che è la Fao, la piaga della fame non dipende dalla carenza di cibo, ma dalla povertà (chi non mangia non ha i soldi per comperare il cibo), dalla cattiva distribuzione e dagli sprechi“, ma è vero anche che la FAO distingue chiaramente gli “sprechi” dalle “perdite”: i primi avvengono, per così dire, vicino al piatto, e dalle nostre parti. Le seconde, invece, avvengono sul luogo di produzione, o vicino ad esso, essenzialmente nei paesi in via di sviluppo, per carenza di infrastrutture adeguate allo stoccaggio, alla conservazione e al trasporto, e soprattutto sono imputabili alla mancanza di tecnologie adeguate alla difesa sul campo delle colture da infestanti e parassiti. Quindi continuare a menarla con gli OGM significa opporsi ad una tecnologia che riduce le perdite, e quindi gli sprechi, oltre che l’impatto ambientale del processo produttivo. E andiamo avanti.
A quanti gridano allo scandalo che il glifosate favorisce l’evolversi di piante resistenti all’erbicida, è opportuno far notare che i semi di piante germinanti anche dopo il pirodiserbo sono il frutto della pressione selettiva esercitata che ha favorito le piante che hanno sviluppato meccanismi di sopravvivenza, tanto quanto fanno le piante con il glifosate e ciò in barba al mantenimento della biodiversità prima e dopo.