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Il succo verde

29 luglio 2013

Amy Harmon, sulla pagina scientifica del New York Times, racconta in un lungo e bellissimo articolo la storia della battaglia di Ricke Kress, presidente della Southern Garden Citrus, contro i parassiti delle arance e al tempo stesso contro le debolezze dell’opinione pubblica. Una battaglia che ha messo un intero comparto produttivo di fronte alla consapevolezza della reale dimensione del divario tra ciò che la scienza è in grado di raggiungere e ciò che la società è disposta ad accettare. Una battaglia cominciata nel 2005, quando lui ed altri 8000 produttori di agrumi della Florida decisero di intensificare gli sforzi per contrastare e sconfiggere C. liberibacter, batterio responsabile del cosiddetto “citrus greening”, che impedisce alle arance di svilupparsi completamente, lasciandole mezze verdi e prive di valore commerciale.

Un contagio che non è certo circoscritto alla sola Florida, ma che in Florida, secondo produttore mondiale dopo il Brasile con un comparto che impiega quasi 80.000 persone e fattura 9 miliardi di dollari, assume dimensioni particolarmente inquietanti:

Per rallentare la diffusione del batterio che causa la piaga, hanno abbattuto centinaia di migliaia di alberi infetti e spruzzato una serie in continua crescita di pesticidi sull’insetto alato che lo porta con sé. Senza riuscire a contenere il contagio.

Hanno perlustrato i più di duecentomila ettari di agrumeti della Florida centrale e inviato squadre di ricerca in tutto il mondo per trovare un albero naturalmente immune che sarebbe potuto essere utilizzato come nuovo capostipite di una coltura che ha prosperato nello Stato sin dal suo arrivo, si dice, con Ponce de León. Ma un albero simile non esisteva.

“In tutti gli agrumi coltivati non ci sono evidenze di immunità”, sentenziò il patologo vegetale a capo di un gruppo di lavoro sulla malattia del National Research Council.

In tutti gli agrumi, ma forse non in tutta la natura. Con un rapido declino nel raccolto della Florida previsto entro il decennio, Kress si convinse che l’unica possibilità rimasta per salvarlo era quella che la sua azienda e gli altri produttori avevano a lungo evitato di prendere in considerazione per paura di un rifiuto da parte dei consumatori. Avrebbero dovuto alterare il DNA dell’arancio con un gene proveniente da una specie diversa.

E qui cominciano i problemi, dal momento che non era necessario soltanto trovare un gene efficace, ma anche un gene “tranquillizzante” per i consumatori, senza la fiducia dei quali tutto il lavoro sarebbe stato vano, a prescindere dai risultati sul campo.  L’esperienza del Flavr Savr, una varietà di pomodoro ingegnerizzato per rimanere morbido più a lungo, ma che ha incontrato difficoltà nella commercializzazione nonostante in un primo momento fosse stata accolta positivamente dai consumatori, fino ad essere definitivamente ritirata dal mercato nel 1997, è emblematica per ricordare i principali ostacoli che si devono affrontare quando si passa dal feed, prodotti per l’alimentazione animale, al food, per l’alimentazione umana. D’altronde il succo d’arancia della Florida è stato per decenni pubblicizzato come “100% naturale”.

Per combattere C. liberibacter, Gabriel Dean dell’Università della Florida aveva scelto un gene da un virus che distrugge i batteri replicandosi. Sebbene tali virus, chiamati batteriofagi, sono innocui per l’uomo, Kress fu più volte sollecitato a considerare le perplessità nell’opinione pubblica nelle quali ci si sarebbe imbattuti con un gene proveniente da una “sorgente” così strana: “un gene di un virus che infetta i batteri?” (…)

Un secondo contendente, Erik Mirkov del Texas A&M University, stava facendo progressi con piante nelle quali aveva inserito un gene proveniente dagli spinaci – un alimento, ricorda Kress, che “noi diamo ai bambini.” Il gene, che esiste in forme leggermente diverse in centinaia di specie animali e vegetali, produce una proteina che attacca i batteri invasori.

Ma anche in questo caso il dottor Mirkov ha dovuto affrontare scetticismo degli stessi coltivatori. “il mio succo saprà di spinaci?” Ha chiesto qualcuno. “Sarà verde?” Chiese un altro.

Come se ne esce? Vedremo. Intanto Ricke Kress si dice fiducioso del fatto che la consapevolezza della mancanza di alternative condurrà i consumatori dalla sua parte. Ce lo auguriamo.

Un’ultima annotazione, di carattere metodologico: l’articolo del New York Times affronta una tematica delicata e complessa. Lo fa senza peli sulla lingua, evitando però accuratamente di scadere nella sindrome da tifoserie contrapposte che caratterizza la comunicazione giornalistica, assai cialtronesca, sulle biotecnologie agrarie dalle nostre parti. Non vengono taciuti gli aspetti problematici, dalla corretta percezione e valutazione del rischio da parte del pubblico fino agli aspetti più specificamente normativi, dai refendum sulle etichettature in California al costo delle sperimentazioni e dei processi autorizzativi: “milioni di dollari solo per eseguire i test di sicurezza per un singolo gene in una sola varietà di arancia”. Ma mai, in nessun caso, vengono riportate tesi destituite di fondamento scientifico.

Dalle nostri parti Il più importante quotidiano nazionale lascia che ad affrontare problemi di questa portata siano Susanna Tamaro e Giulia Maria Crespi, con risultati che tendono a spostare notevolmente in là la soglia del ridicolo, mentre proprio pochi giorni fa, sulle stesse pagine, un agrume probabilmente attaccato da C. liberibacter è stato spacciato per vittima mutante dell’incidente al reattore di Fukushima. Ma evidentemente la stampa italiana tiene la propria stessa reputazione in ben altro conto.

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One Comment leave one →
  1. bourbaki permalink
    29 luglio 2013 19:37

    L’ha ribloggato su Don't tread on me.

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