Dei “miracoli” di Stamina nessuna evidenza. La lezione del Radithor
Libertiamo – 19/09/2013
C’è stata un’epoca durante la quale alla parola “radioattività” non veniva attribuita l’accezione negativa alla quale siamo abituati oggi. Era l’inizio del secolo scorso, e pubblicizzare come radioattivi prodotti di uso quotidiano, dal sapone al cioccolato all’acqua minerale, era diventata cosa piuttosto comune. Gli studi sulla radioattività erano agli inizi, se ne intuivano le straordinarie potenzialità, ma ancora non se ne comprendevano appieno i pericoli, mentre la misteriosa energia sprigionata da alcune sostanze naturali, in grado di impressionare una lastra fotografica in assenza di luce e addirittura attraverso i tessuti molli del corpo umano, suggeriva l’eventualità di proprietà miracolose, oltre che la possibilità di guadagni a non finire.
Ma se scrivere “saponetta radioattiva” su un’etichetta altro non era che un banale, e probabilmente innocuo, espediente di marketing, lo stesso non si può dire di alcuni preparati radioattivi ai quali veniva attribuita la capacità di curare le malattie più disparate, che ebbero una certa diffusione nel periodo a cavallo delle due guerre mondiali. La storia del più celebre di questi, il Radithor, è stata ricordata recentemente da Marco Cattaneo su Le Scienze, e vale la pena raccontarla per le conseguenze che ha avuto, negli Stati Uniti e nel resto del mondo, sulla legislazione che regola l’approvazione e la messa in commercio di prodotti farmaceutici, a cominciare da una decisa espansione dei poteri della Food and Drugs Admistration, che fino ad allora poteva solo “raccomandare” ma non vietare.
Il Radithor era una mistura letale: flaconi di acqua distillata con l’aggiunta di un microcurie di radio 226 e 228. Il suo “inventore”, William J. A. Bailey, si spacciava per dottore in medicina nonostante fosse uscito da Harvard senza laurearsi e i depliant pubblicitari del Radithor promettevano risultati straordinari nella cura di circa 150 patologie, per molte delle quali all’epoca non esistevano cure efficaci. Ma fu la banale frattura al braccio che si procurò il magnate newyorchese dell’acciaio Eben Byers cadendo dalla cuccetta di un treno, a dare al Radithor la celebrità che meritava: Byers bevve, tra il 1927 e il 1930, circa 1400 flaconi del preparato, e morì nel 1932 dopo una lunga e straziante agonia durante la quale il suo scheletro andò letteralmente in frantumi, e il suo cervello fu devastato dagli ascessi. Un’agonia che ebbe molto risalto sui giornali, così come il processo che seguì a carico della Bailey Radium Laboratories Inc. del New Jersey, che nel frattempo aveva venduto circa 400.000 flaconi di Radithor.
Oggi le cellule staminali possono evocare suggestioni simili a quelle che un secolo fa evocava lo studio della radioattività agli esordi. L’idea che esistano delle cellule “vergini” in grado di trasformarsi in ciò che a noi più aggrada (è sostanzialmente questa la vulgata che definisce le potenzialità delle staminali), moltiplica attese non sempre giustificate da evidenze scientifiche adeguate, almeno per il momento, soprattutto nel campo delle malattie neurodegenerative, per le quali ancora oggi non esistono cure. L’immagine di un tessuto in grado di ricostruirsi da solo, però, può far apparire chi impartisce terapie attraverso le staminali come una sorta di “re taumaturgo”, di quelli che nel Medio Evo, in Francia, curavano miracolosamente le scrofole attraverso il contatto e l’enunciazione della formula “il Re ti tocca, Iddio ti guarisca”.
Alcuni giorni fa il comitato di esperti nominato dal Ministero della Salute ha bocciato il cosiddetto metodo Stamina, il misterioso protocollo che il suo ideatore, il dottore in lettere e filosofia nonché docente di psicologia della comunicazione Davide Vannoni, pretendeva venisse applicato nelle strutture del Servizio Sanitario Nazionale, e che ha goduto di un inatteso quarto d’ora di celebrità grazie ad un servizio strappalacrime su una popolare trasmissione satirica. La motivazione, nonostante segua circa cento pagine di analisi e quindici di conclusioni, lascia poco spazio alle interpretazioni: “non esistono i necessari presupposti di scientificità e sicurezza”. Se esistono norme che regolamentano la sperimentazione e l’utilizzo di farmaci e terapie, lo dobbiamo al fatto che anche preparati come il Radithor non rispettavano gli stessi criteri di scientificità e sicurezza. Non sono mai esistiti i brevetti che Vannoni sosteneva di avere, e i dati a sostegno dell’efficacia della terapia erano stati in realtà ottenuti da altri, con altri metodi.
E se la credibilità di qualsiasi ricerca scientifica deriva soprattutto dalla pubblicità dei suoi risultati e delle sue metodologie, a disposizione della verifica di altri scienziati, ciò che più di ogni altra cosa squalifica Vannoni è proprio il mistero che ha sempre circondato il metodo Stamina. Lui continua a promettere risultati ed evidenze, ma si ostina a non mostrarcele, pretendendo invece che la comunità scientifica ed il Servizio Sanitario Nazionale accettino come unici titoli di merito i presunti miglioramenti di un ridottissimo campione di ammalati. Le cose non funzionano così: anche il povero Byers, dopo aver cominciato ad usare il Radithor, sosteneva di sentirsi forte come un leone.
Vannoni dice di non fidarsi del Ministero della Salute, di Nature, della comunità scientifica che, da subito, ha espresso ragionevoli perplessità sul metodo Stamina e sul singolare personaggio che ne propaganda i miracoli facendo leva sulla disperazione dei familiari dei piccoli malati di terribili malattie neurodegenerative. Noi invece non ci fidiamo di lui. Neanche un po’.
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